Gary Greenberg STORIA SEGRETA DEL MALE OSCURO Come tanti, anche Gary Greenberg ha provato in prima persona l'inspiegabile e persistente calo d'umore, la vertigine da svuotamento dell'Io, la contrazione allo stomaco che toglie ogni vitalità, l'angoscia di non riuscire ad affrontare il giorno successivo, mentre l'orizzonte man mano si contrae. E si è chiesto perché oggi la scienza abbia ricomposto queste sofferenze in un quadro patologico chiamato "depressione". Una malattia vera e propria, diagnosticabile e curabile come l'artrite o il diabete, e diffusissima. L'ennesimo trionfo della medicina o piuttosto l'apertura, attraverso la prescrizione in massa degli antidepressivi da parte dei medici generici, di un immane mercato per le case farmaceutiche?Cercando di vedere chiaro nel passaggio di rango dell'antica melanconia, Greenberg procede con la impertinenza di chi sa grattar via lo smalto dai paludati protocolli scientifici per accertare di quale lega siano fatti. Si muove su un terreno familiare, da psicoterapeuta e da paziente abituato all'oscurità del dolore. La sua inchiesta però non si lascia contagiare dalla tristezza del proprio oggetto, anzi assume i toni irresistibili della scorribanda rivelatrice, e alla fine del libro più trascinante e documentato scritto sull’argomento i suoi dubbi diventano i nostri: l’idea che l’infelicità sia riducibile a un difetto biochimico che una pillola è in grado di riequilibrare, o a un vizio di pensiero che il terapeuta cognitivo provvede a correggere, è solo funzionale a fabbricare nuova depressione medicalizzata. Si vuole rimettere a nuovo il Sé senza fare i conti con l’unico elemento pertinente, la storia personale. Così non possiamo che condividere l’esortazione di Greenberg a «non lasciare che i medici della depressione ci facciano ammalare». Gary Greenberg svolge attività di psicoterapeuta nel Connecticut. I suoi interessi sono rivolti in particolare agli intrecci tra scienza, politica ed etica, a cui ha dedicato il saggio The Noble Lie. When Scientists Give the Right Answers for the Wrong Reasons (2008). Collabora a «Harper’s Magazine», «The New Yorker», «Wired», «Discover», «Rolling Stone», «Mother Jones». © 2010 Gary Greenberg Titolo originale Manufacturing Depression. The Secret History of a Modern Disease Traduzione di Sara Sullam Storia segreta del male oscuro Suona le campane che ancora possono risuonare / dimentica l’offerta perfetta ogni cosa ha la sua fessura / è così che entra la luce Leonard Cohen, Anthem 1. Molluschi Quando Betty Twarog apre la porta delle sue stanze nei sotterranei del Darling Marine Laboratory della University of Maine, vieni investito da una folata di aria salmastra e dal rumore assordante dell’acqua pompata dal porto di Boothbay. L’acqua fischia, si vaporizza e gorgoglia nelle tubature, per poi passare in grandi vasche scure piene di ricci, stelle marine e altre strane creature, prima di finire nuovamente nel porto. In mezzo a questa confusione provo a urlare le mie domande a Twarog, ma lei con una decisa scossa del capo mi fa segno di tacere. Avrà paura, penso, che disturbi i suoi molluschi, le larve di vongole e i pettini in gestazione nel secchio su cui è chinata. Mi spiega che estrarre le dosi giuste da tre miscugli di alghe che ribollono nei barili di plastica della stanza a fianco e darle in pasto ai suoi piccoli assistiti richiede la massima attenzione. E allora continua per mezz’ora a lavorare in religioso silenzio. È una donna esile, dritta come un fuso, ha i capelli lunghi tirati all’indietro, con l’attaccatura a «punta della vedova». Si muove con la disinvoltura di chi queste azioni le ripete da ormai cinquant’anni. A guardarla non si direbbe, ma Betty Twarog ha settantasette anni. Un’altra cosa che non si direbbe osservandola mentre si occupa dei suoi molluschi è che Betty Twarog ha fatto una delle scoperte scientifiche più importanti del ventesimo secolo, la scoperta che ha cambiato il corso delle neuroscienze e della medicina e ha rivoluzionato il modo in cui pensiamo noi stessi. Nel 1952, venticinquenne fresca di dottorato in un mondo di soli uomini, inseguendo un’intuizione su un vecchio mistero irrisolto, Twarog scoprì la serotonina nel cervello, e pose così la pietra angolare della rivoluzione degli antidepressivi. Non era certo quello che aveva in mente. In realtà, voleva solo rispondere alla questione aperta nel 1884 da Ivan Pavlov – sì, proprio quell’Ivan Pavlov – quando aveva fatto una breve incursione nel mondo degli invertebrati. 1 Pavlov, che si trovava a Lipsia con una borsa di perfezionamento, stava cercando di capire i segreti della digestione. Il movimento del cibo attraverso il tratto alimentare è legato per lo più al funzionamento dei muscoli lisci. Pavlov si propose di studiare il byssus retractor, il muscolo liscio che il Mytilus edulis, la comune cozza, utilizza per chiudere la propria valva. In particolare gli interessava capire come era possibile che il mitile riuscisse a tenere chiuse le valve senza dissipare più energia di quella che era in grado di assorbire. Pavlov non rimase a lungo sul problema. Nel solo articolo che pubblicò sull’argomento prima di riprendere le ricerche che lo portarono al Nobel (e al successivo interesse per i riflessi di salivazione nei cani) accennò solo una risposta. Settant’anni più tardi Betty Twarog, per ragioni che lei stessa fatica ancora a spiegare, non seppe resistere al fascino di quel mistero irrisolto. Era convinta di avere la soluzione: ma era troppo bello per essere vero, troppo fuori dagli schemi per essere credibile. Finché la Abbott Pharmaceuticals le offrì i mezzi per risolvere il caso. La Abbott aveva spedito campioni di un composto appena sintetizzato a scienziati affermati di tutto il paese, tra cui John Welsh, maestro di Twarog a Harvard. La molecola non aveva ancora un nome o, per essere più precisi, ne aveva diversi. I chimici la chiamavano 5-idrossitriptamina, per la sua struttura molecolare. Per alcuni biologi si chiamava invece enteramina, perché era stata trovata nell’intestino di polipi e calamari; mentre per quelli che l’avevano trovata nel sangue era serotonina. La casa farmaceutica aveva chiesto agli scienziati di studiare quei campioni per capire di che cosa si trattasse esattamente, quali fossero gli effetti di quella molecola e come potesse essere usata. Dal nuovo composto, la Abbott sperava di ricavare un farmaco o un agente farmacologico. Non aveva neanche lontanamente idea di quello in cui si era imbattuta. Twarog però un’idea ce l’aveva, o almeno così pensava. A suo parere, Pavlov si era avvicinato alla soluzione ben più di quanto credesse. «La cosa stupefacente» mi ha detto «è che ancora oggi è l’articolo di Pavlov a spiegare il controllo di questi muscoli. Pavlov insisteva sul fatto che si contraggono in seguito a una stimolazione nervosa e che rimangono contratti finché non ricevono un segnale contrario dal sistema nervoso parasimpatico». Ciò significava che la cozza non blocca il suo byssus per poi stringere forte, come si stringe un pugno attorno a qualcosa; al contrario, chiude la valva, come un lucchetto, finché non arriva un segnale che la apre, come una chiave. A differenza di Pavlov, Twarog poté beneficiare di una scoperta fatta nel 1921 da uno scienziato tedesco, Otto Loewi, che stava studiando il modo in cui i nervi trasmettono i segnali ai muscoli. Loewi si era chiesto se si trattasse di un processo esclusivamente elettrico o se fosse mediato in qualche modo da agenti chimici. La notte di Pasqua, raccontava Loewi, la soluzione gli era venuta in sogno. Si era quindi precipitato in laboratorio per estrarre i cuori da due rane e immergerli separatamente in acqua salata, dove avrebbero continuato a battere. Aveva lasciato attaccati i nervi che controllano la frequenza del battito: il nervo vago, che la rallenta, e il centro cardio-acceleratore che fa l’opposto, come dice il nome. Con una batteria aveva trasmesso una scarica elettrica al nervo vago: il cuore aveva rallentato, proprio come si aspettava. Poi aveva preso dell’acqua salata dalla stessa vasca e l’aveva fatta gocciolare nella soluzione in cui era immerso l’altro cuore. Quando anche quel cuore aveva rallentato senza alcuno stimolo elettrico, Loewi aveva potuto concludere che a rallentare il cuore era stato un agente chimico rilasciato dal nervo vago e non l’elettricità. Aveva ripetuto l’esperimento sul centro cardio-acceleratore, ottenendo lo stesso risultato, e alle cinque del mattino del lunedì di Pasqua il principio della neurotrasmissione chimica era stato dimostrato. Quando Twarog cominciò a interessarsi alle cozze il principio di Loewi era già noto, ma gran parte degli scienziati credeva che gli agenti chimici del tedesco – l’acetilcolina e l’epinefrina – fossero gli unici due neurotrasmettitori. Invece Twarog era sicura che ce ne fosse un altro – quello che usava la cozza per chiudere e schiudere la sua valva – e sospettava che si trattasse dell’agente chimico che la Abbott aveva mandato in giro. Nel maggio del 1952 Twarog e Welsh diposero alcune cozze su un tavolo da laboratorio. Non appena la serotonina Abbott le colpì, il byssus retractor si ritrasse. Twarog aveva ragione: era la serotonina il neurotrasmettitore mancante. Un nuovo neurotrasmettitore era una novità inquietante per l’ortodossia scientifica. Nulla però in confronto alla conclusione a cui era giunta Twarog, che sfiorava l’eresia: la scienziata sosteneva infatti che la serotonina si trovava anche nel cervello dei mammiferi, e quindi, naturalmente, nel cervello umano. A quei tempi la maggior parte dei biologi riteneva che gli esseri umani fossero diversi dal resto del mondo animale e che il cervello fosse diverso dal resto del corpo. Pensavano che i segnali elettrici saltassero da una parte all’altra del cervello come scintille, il che significava tornare all’idea cartesiana della ghiandola pineale che invia messaggeri eterei per connettere l’anima al corpo. Per Twarog un ragionamento di questo tipo era «pura idiozia intellettuale». Non aveva alcun senso dal punto di vista scientifico: «quale poteva mai essere la differenza tra il cervello e il resto del corpo?», mi ha chiesto, ancora incredula dopo tanti anni. «Tuttavia secondo i biologi i nervi funzionavano in quel modo, a prescindere dalla loro collocazione». E, cosa forse più importante, quel ragionamento lasciava a desiderare anche dal punto di vista filosofico. «Hai presente la poesia di Tennyson Fiore in un muro screpolato?» Me l’ha recitata a memoria: «Fiore in un muro screpolato, / ti strappo dalle fessure, / ti tengo qui, radici e tutto, nella mano, / piccolo fiore – ma se potessi capire / che cosa sei, radici e tutto, e tutto in tutto, / saprei che cosa è Dio e cosa è l’uomo». Due anni più tardi Twarog si trasferì nell’Ohio per seguire il marito, che aveva ottenuto un posto all’università. Non si voleva dare per vinta e fece domanda per lavorare con Irvine Page, un medico della Cleveland Clinic che stava studiando il ruolo della serotonina nella regolazione della pressione sanguigna. Il giorno del colloquio pioveva a dirotto e, ricorda, «sembravo uno di quei trofei che i gatti ti portano in casa». Ancora fradicia, Twarog descrisse a Page le sue condizioni di lavoro ideali: un laboratorio, un assistente e il tempo per studiare la distribuzione della serotonina nel cervello. Lui la sottopose a un terzo grado – in fondo, la sua ipotesi contraddiceva tutto ciò che gli era stato insegnato sul sistema nervoso – ma alla fine le concesse un tavolo e un tecnico. Nel giro di un anno Betty Twarog aveva trovato la serotonina nei cervelli di ratti, cani e scimmie. Il suo primo articolo – quello sull’esperimento di Harvard – fu pubblicato solo nel 1954. 2 Non era stata neanche ricontattata dall’editor del «Journal of Cell Physiology» – Detlev Bronk, rettore della Johns Hopkins University – finché John Welsh, il suo professore di Harvard, non aveva chiamato per informarsi sull’articolo. Bronk era stato categorico: non avrebbe certo chiesto ai suoi colleghi di valutare un articolo di pure congetture su un argomento così importante, per di più scritto da un’emerita sconosciuta. In realtà, mentre l’articolo ammuffiva sulla scrivania di Bronk, altri scienziati più affermati di Twarog giungevano a conclusioni simili alle sue sulla serotonina. Una volta pubblicati i loro risultati, allora Twarog poté dire la sua. La stessa sorte toccò all’articolo scritto con Irvine Page 3 sulla serotonina cerebrale, che dovette aspettare che i pezzi grossi si pronunciassero. Oggi però nessuno contesta il fatto che sia stata lei la prima a fare entrambe le [...]... notorietà e la portata della scoperta; aggiungici una scienza appassionante, e alla fine avrai non solo una grande storia, ma anche un ottimo esempio del modo in cui gli scienziati ci portano sul Parnaso, in questo caso le vette della felicità e della salute Una buona storia scientifica ha il potere di farci sentire ottimisti riguardo al progresso e alle sorti dell’umanità Non è il genere di storia che racconterò... tempi Dopotutto non sappiamo nulla della vita interiore dell’Homo sapiens per i circa 200 000 anni precedenti l’avvento della scrittura; per cui la sua apparizione agli albori della storia potrebbe semplicemente significare che l’uomo cominciò a provare sconforto nel momento in cui ebbe una tale coscienza di sé da sentire il bisogno di consegnarla alla parola scritta) La versione sumera della storia. .. le storie della depressione partono da Ippocrate,23 il famoso medico dell’antica Grecia.24 E con ragione Autore del giuramento con cui i medici si impegnano a non fare del male, a non uccidere né sedurre i propri pazienti, Ippocrate ha posto le basi della medicina occidentale, insistendo sul fatto che compito del medico è acquisire il maggior numero possibile di dettagli sulle sofferenze del paziente... visita si trasforma nel rituale del lutto Durante quella settimana succede qualcosa – forse Giobbe si rende conto della portata delle proprie disgrazie, forse è il dolore delle ulcere che lo mina e lo sfigura, o forse capisce che le persone che sono lì a consolarlo in verità stanno osservando la shiva per lui e non con lui, che privato della propria ricchezza, della famiglia e della dignità è un uomo morto... Ma ancora una volta il Principe dell’Oscurità ha la meglio sull’insicurezza di Jaweh, e punisce Giobbe «con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo».35 La moglie cerca di portarlo sulla cattiva strada «Maledici Dio», gli dice, «e muori», ma Giobbe non ne vuole sapere «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male? »36 La storia potrebbe chiudersi sull’immensa... il favore nei confronti dei farmaci La pillola della felicità si chiude con una profezia Dopo aver speso il meglio delle precedenti trecento pagine scervellandosi sulle implicazioni del ricorso ai farmaci per risolvere i propri problemi, Kramer arriva alla conclusione che farsi domande del genere è ormai ozioso: Per adesso, farsi delle domande sulla virtù del Prozac … suona come se ci stessimo chiedendo... problemi (se non è responsabile delle catastrofi in sé, lo è comunque della sua reazione a esse) Sarebbe capace di affrontare le difficoltà e di andare avanti, con lo sguardo rivolto a un futuro in cui, secondo Elifaz, sarai al riparo dal flagello della lingua, né temerai quando giunge la rovina Della rovina e della fame riderai né temerai le bestie selvatiche; con le pietre del campo avrai un patto e le... fosse stato a conoscenza della terapia cognitivo-comportamentale, avrebbe potuto alleviare la sua sofferenza Tuttavia, il contributo di Giobbe alla nostra moderna concezione della depressione è ben più importante e una lettura di questo tipo rischia di non coglierlo Agli albori della storia, messi davanti allo smarrimento causato dalle perdite e al grado di disperazione a cui l’uomo poteva giungere, coloro... un’iniziazione alle difficoltà della vita reale Parlai di questo e altro durante le mie sedute di psicoterapia, e mi resi conto di una serie di cose che non avevo mai voluto sapere su me stesso, mi meravigliai di come alcuni capitoli a lungo (e per fortuna) dimenticati della mia vita si fossero abilmente insinuati nel mio risveglio esistenziale, della malafede di cui ero capace e del dolore che poteva causare in... stessa che troviamo alla base dell’odierna medicina, e quindi anche della cura della depressione Una delle malattie studiate da Ippocrate ha qualcosa in comune con quella che oggi chiamiamo depressione «Paura e tristezze prolungate possono essere chiamate melancolia»26 scriveva il medico greco; e il paziente melanconico, che soffre di un eccesso di bile nera (traduzione letterale del greco melancholia ) . Gary Greenberg STORIA SEGRETA DEL MALE OSCURO Come tanti, anche Gary Greenberg ha provato in prima. History of a Modern Disease Traduzione di Sara Sullam Storia segreta del male oscuro