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Università del Piemonte Orientale Corso di filosofia del diritto a a 2014/15 Reader III 10 filosofi classici: Aristotele Hobbes Beccaria Kant Jhering Radbruch Kelsen Dworkin Habermas 10 Derrida Aristotele: filosofo della giustizia ETICA NICOMACHEA LIBRO V [La giustizia in generale] [1129a] Circa la giustizia e l’ingiustizia dobbiamo considerare quali azioni esse riguardino, che genere di medietà è [5] la giustizia, e quali sono gli estremi tra cui il giusto è medio La nostra indagine deve seguire lo stesso metodo delle parti precedenti Noi, pertanto, vediamo che tutti intendono "giustizia" la medesima disposizione, quella per cui gli uomini sono portati a compiere le azioni giuste, per cui agiscono giustamente e vogliono le cose giuste; nel medesimo modo stanno le cose [10] per quanto riguarda l’ingiustizia, disposizione per la quale gli uomini agiscono ingiustamente e vogliono le cose ingiuste Diamo anche noi per concessa questa prima definizione sommaria In effetti, le cose non stanno allo stesso modo nel caso delle scienze e delle potenze e nel caso delle disposizioni Si ritiene infatti che una potenza ed una scienza siano la medesima per gli oggetti contrari88, mentre la disposizione che è contraria ad un’altra non produce i risultati contrari, [15] come, per esempio, partendo dalla salute non si compiono azioni ad essa contrarie, ma solo quelle salutari: diciamo, infatti, camminare "in modo sano" quando uno cammina come camminerebbe un uomo sano Posto questo, spesso la disposizione contraria si riconosce dalla sua contraria, ma spesso le disposizioni si riconoscono da ciò cui esse ineriscono Se infatti è manifesta la buona costituzione fisica, anche [20] la cattiva costituzione diventa manifesta, e dalle condizioni di buona costituzione fisica si inferisce la buona costituzione stessa, e da questa quelle Se, infatti, la buona costituzione fisica consiste nella compattezza della carne, è necessario anche che la cattiva costituzione consista nella flaccidità della carne e che la condizione della buona costituzione sia quella che può produrre la compattezza nella carne Ne segue che, per lo più, se i termini che indicano una disposizione [25] e ciò cui essa inerisce sono usati più significati, anche i loro contrari si usano più significati; per esempio: se il termine "giusto" più significati, anche il termine "ingiusto" avrà più significati89 Sembra che i termini "giustizia" e "ingiustizia" abbiano più significati, ma che per l’affinità di questi significati la loro equivocità rimanga nascosta e non succeda come nel caso dei significati lontani tra loro che sono più visibili: per esempio (qui infatti la differenza è grande secondo l’aspetto esteriore) si chiama [30] kleiv" [chiave], in modo equivoco, sia la clavicola degli animali, sia lo strumento cui si chiudono le porte90 Cerchiamo, dunque, di afferrare quanti significati il termine "uomo ingiusto" Si ritiene comunemente che ingiusto sia chi viola la legge, cioè chi cerca di avere più degli altri e che non rispetta l’uguaglianza, sicché è chiaro che giusto sarà chi rispetta la legge e l’uguaglianza Dunque, la nozione di "giusto" sarà quella di "ciò che è conforme alla legge" e "ciò che rispetta l’uguaglianza", [1129b] quella di "ingiusto" sarà di "ciò che è contro la legge" e di "ciò che non rispetta l’uguaglianza" Poiché l’ingiusto cerca di avere più degli altri, ciò avverrà in relazione i beni: non tutti, ma quelli soggetti a buona e a cattiva fortuna, i quali sono sempre dei beni in sé e per sé, ma non sempre per un determinato individuo Eppure sono questi i beni che gli uomini chiedono nelle loro preghiere e perseguono le loro azioni: [5] ma non si deve fare così, bensì gli uomini dovrebbero pregare che i beni in sé e per sé siano beni anche per loro, e poi scegliere quelli che sono beni per loro Tuttavia l’uomo ingiusto non sceglie sempre il più, ma anche il meno, nel caso delle cose che sono di per sé cattive Ma poiché si ritiene che anche il male minore sia in qualche modo un bene, e che è del bene che si vuole avere di più degli altri, è per questo che l’ingiusto viene ritenuto [10] uno che cerca di avere di più degli altri È, poi, uno che non rispetta l’uguaglianza: questo termine abbraccia i due casi insieme ed è comune ad entrambi Poiché, come abbiamo detto, chi non rispetta la legge è ingiusto ed è giusto chi, invece, la rispetta, è chiaro che tutto ciò che è conforme alla legge è in qualche modo giusto: infatti, ciò che è definito dalla legislazione è cosa conforme alla legge, e ciascuna delle cose così definite noi diciamo che è giusta Ora, le leggi, in tutto ciò che prescrivono, [15] mirano o alla comune utilità di tutti i cittadini o a quella dei migliori o di quelli che dominano per virtù91, o in qualche altro modo del genere Sicché, in uno dei sensi in cui usiamo il termine, chiamiamo giusto ciò che produce e custodisce per la comunità politica la felicità e le sue componenti Ma la legge comanda [20] di compiere anche le opere dell’uomo coraggioso, per esempio, di non abbandonare il proprio posto di combattimento, di non fuggire e di non gettare le armi, e quelle dell’uomo temperante, per esempio, di non commettere adulterio né violenza carnale, e quelle dell’uomo bonario, per esempio, di non percuotere e di non fare maldicenza; e così via analogamente anche per le altre virtù e per gli altri vizi, imponendo certe cose e proibendone altre, e ciò rettamente [25] se la legge è stabilita rettamente, ma meno bene se la legge è stata fatta in fretta Questa forma di giustizia, dunque, è virtù perfetta, ma non in sé e per sé, bensì in relazione ad altro92 Ed è per questo che spesso si pensa che la giustizia sia la più importante delle virtù, e che né la stella della sera né la stella del mattino 93 siano altrettanto degne di ammirazione E col proverbio diciamo: "Nella giustizia [30] è compresa ogni virtù"94 Ed è virtù perfetta soprattutto perché è esercizio della virtù nella sua completezza Inoltre, è perfetta perché chi la possiede può esercitare la virtù anche verso gli altri e non solo verso se stesso: molti, infatti, sanno esercitare la virtù nelle loro cose personali, ma non sono capaci di esercitarla nei rapporti gli altri [1130a] E per questo si pensa che abbia ragione il detto di Biante95 "il potere rivelerà l’uomo": chi esercita il potere, infatti, è già per ciò stesso in rapporto e in comunità gli altri Per questa stessa ragione la giustizia, sola tra le virtù, è considerata anche "bene degli altri", perché è diretta agli altri Essa, infatti, [5] fa ciò che è vantaggioso per un altro, sia per uno che detiene il potere sia per uno che è membro della comunità Ciò posto, il peggiore degli uomini è colui che esercita la propria malvagità sia verso se stesso sia verso gli amici, mentre il migliore non è quello che esercita la virtù verso se stesso, ma quello che la esercita nei riguardi degli altri: questa, infatti, è un’impresa difficile La virtù così determinata non è quindi una parte della virtù, ma la virtù nella sua completezza, [10] e l’ingiustizia che le si contrappone non è una parte del vizio, ma il vizio nella sua completezza In che cosa, poi, differiscano la virtù e la giustizia così determinate è chiaro da quello che si è detto: esse sono, sì, identiche, ma la loro essenza non è la stessa, bensì, in quanto è in relazione ad altro96 è giustizia, in quanto è una determinata disposizione in senso assoluto è virtù [La giustizia in senso stretto] Ma quello che cerchiamo, in ogni caso, è la giustizia che è parte della virtù, giacché esiste [15] una giustizia di questo genere, come appunto andiamo dicendo E, allo stesso modo, anche nel caso dell’ingiustizia cerchiamo quella che è una parte del vizio Indizio della sua esistenza: chi agisce secondo le altre forme di vizio, certo, commette ingiustizia, ma non ci guadagna nulla, come, per esempio, chi getta per viltà lo scudo o chi è maldicente per cattivo carattere o chi, per avarizia, rifiuta un soccorso in denaro Quando, invece, [20] cerca di avere più degli altri, spesso non agisce per alcuna di tali forme di vizio singolarmente presa, ma nemmeno per tutte insieme, bensì per malvagità, almeno per una certa malvagità (lo biasimiamo, infatti), cioè per ingiustizia Dunque, esiste anche un’altra forma di ingiustizia che è parte di quella totale, e una forma di ingiusto che è parte di quello totale, cioè dell’ingiusto che consiste nell’opposizione alla legge Inoltre: se uno commette adulterio in vista di un guadagno e [25] ricavandone un profitto, un altro invece commette adulterio spinto dal desiderio, pagando e subendo una punizione, quest’ultimo lo si riterrà intemperante piuttosto che avido; il primo, invece, lo si riterrà ingiusto, e non intemperante È evidente, dunque, che in questo caso l’ingiustizia è causata dall’amor di guadagno Inoltre, nel caso di tutti gli altri atti ingiusti è sempre possibile una riconduzione a qualche forma di vizio; per esempio, l’adulterio [30] si riconduce alla intemperanza, l’abbandono del commilitone si riconduce alla viltà, la violenza fisica all’ira Ma se uno ricavato un illecito guadagno, non è riconducibile a nessun’altra forma di vizio se non all’ingiustizia Sicché è evidente che oltre a quella totale esiste un’altra forma di ingiustizia, che è parte della prima e lo stesso nome, perché la sua definizione rientra nel medesimo genere: [1130b] entrambe, infatti, consistono nel fatto di riferirsi, potenzialmente, agli altri Ma l’una riguarda l’onore o la ricchezza o la sicurezza personale (o qualunque sia il termine cui possiamo abbracciare tutte queste cose insieme), ed è motivata dal piacere che deriva dal guadagno; l’altra, invece, riguarda tutte quante le cose che sono oggetto dell’azione [5] dell’uomo di valore Che, dunque, i tipi di giustizia sono più d’uno e che ne esiste una specie distinta oltre alla giustizia intesa come totalità della virtù, è chiaro: ma bisogna cercare di afferrare quale essa sia e quale natura abbia Abbiamo, dunque, distinto il significato di "ingiusto" in "contrario alla legge" e "non rispettoso dell’uguaglianza", e di "giusto" in "conforme alla legge" e "rispettoso dell’uguaglianza" Dunque, [10] l’ingiustizia di cui parlavamo prima rientra nel campo di ciò che è contrario alla legge Ma poiché "non rispettoso dell’uguaglianza" e "contrario alla legge" non sono la stessa cosa, ma si distinguono come la parte rispetto all’intero (infatti, tutto ciò che non è rispettoso dell’uguaglianza è contrario alla legge, ma ciò che è contrario alla legge non è tutto non rispettoso dell’uguaglianza), anche l’ingiusto e l’ingiustizia in senso parziale non sono gli stessi che l’ingiusto e l’ingiustizia in senso totale, ma sono diversi da quelli, perché i primi sono delle parti, i secondi, invece, delle totalità: [15] questo tipo di ingiustizia è, infatti, una parte della ingiustizia intesa come totalità, e lo stesso dicasi della giustizia Cosicché dobbiamo parlare anche della giustizia e dell’ingiustizia particolari, e così pure del giusto e dell’ingiusto particolari Orbene, lasciamo da parte la giustizia intesa come la totalità della virtù, e la corrispondente ingiustizia: la prima è l’esercizio della virtù nella sua totalità [20] nei riguardi degli altri, la seconda è l’esercizio del vizio Ed è chiaro come vanno distinti il giusto e l’ingiusto corrispondenti ad esse Infatti, la maggior parte, si può dire, degli atti conformi alla legge sono gli atti che vengono prescritti sulla base della virtù totale: la legge, infatti, ordina di vivere in conformità ciascun tipo di virtù e proibisce di vivere secondo ciascun tipo di vizio [25] Ma sono le disposizioni di legge che vengono stabilite per l’educazione al bene comune quelle che producono la virtù totale Per quanto riguarda l’educazione individuale, poi, per la quale un uomo è buono in generale, se essa sia di competenza della politica o di un’altra scienza, dovremo determinarlo in seguito97: infatti, non è certo la stessa cosa in ogni caso essere uomo buono e buon cittadino [30] Della giustizia in senso parziale e del giusto che le corrisponde, ci sono due specie: una è quella che si attua nella distribuzione di onori, di denaro o di quant’altro si può ripartire tra i membri della cittadinanza (giacché in queste cose uno può avere una parte sia disuguale sia uguale a quella di un altro), l’altra è quella che apporta correzioni nei rapporti privati [1131a] Di quest’ultima, poi, ci sono due parti: infatti, alcuni rapporti sono volontari, altri involontari Rapporti volontari sono, per esempio: vendita, acquisto, prestito, cauzione, nolo, deposito, locazione (si dicono volontari [5] perché il principio di questi rapporti è volontario) Dei rapporti involontari, poi, alcuni si istituiscono di nascosto, come, per esempio, furto, adulterio, avvelenamento, lenocinio, corruzione di schiavi, omicidio doloso, falsa testimonianza; altri si istituiscono la violenza, come, per esempio, maltrattamenti, sequestro, omicidio, rapina, mutilazione, diffamazione, oltraggio [La giustizia distributiva] [10] Poiché l’uomo ingiusto, e così ciị che è ingiusto, non rispetta l’uguaglianza, è chiaro che c’è anche qualcosa di mezzo tra gli estremi disuguali E questo è l’uguale, giacché in ogni tipo di azione in cui ci sono il più ed il meno c’è anche l’uguale Se, dunque, l’ingiusto è il disuguale, il giusto è l’uguale; cosa che tutti riconoscono anche senza bisogno di un ragionamento Ma poiché l’uguale è medio, il giusto dovrà essere un certo tipo di medio [15] Ma l’uguale presuppone almeno due termini Pertanto, necessariamente, il giusto è insieme medio e uguale, e relativo, cioè è giusto per certe persone; e, in quanto è medio, è medio tra certi estremi (e questi sono il più e il meno); in quanto, invece, è uguale, è uguaglianza di due cose; in quanto è giusto, lo è per certe persone Il giusto, quindi, implica necessariamente almeno quattro termini: infatti, le persone per le quali il giusto è tale [20] sono due, e due sono le cose in cui si realizza E l’uguaglianza dovrà essere la stessa, tra le persone come tra le cose: infatti, il rapporto tra le cose deve essere lo stesso che quello tra le persone Se queste, infatti, non sono uguali, non avranno cose uguali; ma le lotte e le recriminazioni è allora che sorgono: o quando persone uguali hanno o ricevono cose non uguali, o quando persone non uguali hanno o ricevono cose uguali Questo risulta [25] chiaro anche dal principio della distribuzione secondo il merito Tutti, infatti, concordano che il giusto nelle distribuzioni deve essere conforme ad un certo merito, ma poi non tutti intendono il merito allo stesso modo, ma i democratici lo intendono come condizione libera, gli oligarchici come ricchezza o come nobiltà di nascita, gli aristocratici come virtù In conclusione, il giusto è un che di proporzionale [30] Infatti, la proporzionalità è una proprietà non solo del numero astratto, ma anche del numero in generale: la proporzione è un’uguaglianza di rapporti98, e implica almeno quattro termini Che la proporzione discreta implichi almeno quattro termini è chiaro Ma anche la proporzione continua ne quattro99: essa, infatti, impiega un termine come se fossero due, cioè lo prende due volte [1131b] Esempio: A sta a B, come B sta a C Dunque B è stato menzionato due volte, cosicché, se si pone B due volte, i termini in proporzione saranno quattro E anche il giusto implica almeno quattro termini, e il rapporto è lo stesso, [5] giacché sia le persone sia le cose sono messe in rapporto allo stesso modo Dunque, il termine A starà al termine B, come C a D, e quindi, scambiando i medi100, A starà a C, come B a D Anche le somme degli antecedenti i conseguenti sono nello stesso rapporto101: la distribuzione risulta giusta se i termini che mette insieme a due a due sono posti in questo modo È dunque l’accoppiamento del termine A col termine C e quello di B D [10] che costituisce il giusto nella distribuzione, e il giusto cosi inteso è un medio, mentre l’ingiusto è ciò che viola la proporzione: infatti, ciò che sta in proporzione è un medio, e il giusto è in proporzione I matematici chiamano geometrico questo tipo di proporzione102, giacché nella proporzione geometrica succede che le somme degli antecedenti i conseguenti stanno fra loro come ogni antecedente sta al suo conseguente [15] Ma questa proporzione103 non è una proporzione continua, giacché una persona ed una cosa non possono costituire un termine singolo Il giusto così inteso, dunque, è la proporzionalità, mentre l’ingiusto è ciò che viola la proporzionalità Quindi, nell’ingiustizia un termine è troppo grande e l’altro è troppo piccolo, come succede anche nei fatti: chi commette ingiustizia, in effetti, di più, chi la subisce [20] di meno, se si tratta di un bene Il contrario se si tratta di un male, giacché il male minore paragonato al male maggiore è tenuto in conto di bene: infatti, il male minore è preferibile al maggiore, ma ciò che è preferibile è un bene, e ciò che è più preferibile è un bene più grande Questa, dunque, è una delle due specie del giusto [La giustizia correttiva] [25] Resta la seconda specie di giustizia, quella correttiva, che si attua nei rapporti privati, sia in quelli volontari sia in quelli involontari Questo tipo di giusto un carattere specifico diverso da quello precedente Infatti, il giusto che riguarda la distribuzione dei beni comuni è sempre conforme alla proporzione suddetta Quando, infatti, luogo la distribuzione di beni comuni, [30] questa avverrà secondo il medesimo rapporto in cui si trovano, l’uno nei riguardi dell’altro, i diversi contributi originariamente apportati: e l’ingiusto opposto al giusto inteso in questo senso è ciò che viola la proporzione Ciò, invece, che è giusto nei rapporti privati è una specie di uguale, e l’ingiusto una specie di disuguale, [1132a] ma non secondo quella proporzione, bensì secondo la proporzione aritmetica104 Non c’è nessuna differenza, infatti, se è un uomo buono che toglie qualcosa ad uno cattivo, o se è uno cattivo che toglie qualcosa ad uno buono, né se a commettere adulterio è un uomo buono o uno cattivo: la legge guarda solo alla differenza relativa al danno, [5] e li tratta entrambi da uguali, chiedendosi soltanto se uno commesso o subito ingiustizia, e se procurato o subito il danno Per conseguenza, poiché l’ingiusto così inteso è una disuguaglianza, il giudice cerca di ristabilire l’uguaglianza Infatti, quando uno infligge e l’altro riceve percosse, o anche quando uno uccide e l’altro resta ucciso, l’azione subita e l’azione compiuta restano divise in parti disuguali: ma il giudice [10] cerca di ristabilire l’uguaglianza la perdita inflitta come pena105, cioè col togliere qualcosa al guadagno ingiusto In casi simili, infatti, si usa, tanto per parlare, anche se il vocabolo per certe situazioni non è appropriato, il termine "guadagno": per esempio, "guadagno" per chi inflitto percosse, e "perdita" per chi le ricevute Ma almeno quando il danno subito può essere misurato, si può parlare di perdita da una parte e di guadagno dall’altra Cosicché l’uguale sta in mezzo tra il meno e il più, [15] mentre il guadagno e la perdita sono l’uno il più e l’altra il meno in sensi opposti: il guadagno è più di bene e meno di male, la perdita è il contrario; il medio tra essi, l’abbiamo già detto, è l’uguale, ed è ciò che noi chiamiamo giusto Per conseguenza, il giusto correttivo sarà il medio106 tra perdita e guadagno Ecco perché, quando si litiga, [20] ci si rifugia dal giudice: andare dal giudice significa andare davanti alla giustizia, giacché il giudice intende essere come la giustizia vivente E si cerca il giudice come termine medio (anzi alcuni chiamano i giudici "mediatori"), nella convinzione che se si raggiunge il termine medio, si raggiungerà il giusto In conclusione, ciò che è giusto è un che di intermedio, se è vero che lo è anche il giudice [25] E il giudice ristabilisce l’uguaglianza, cioè, come se si trattasse di una linea divisa in parti disuguali, egli sottrae ciò di cui la parte maggiore sorpassa la metà107 e l’aggiunge alla parte minore Ma quando l’intero è diviso in due metà, allora si dice che uno la sua parte quando prende ciò che è uguale L’uguale, poi, è medio tra il più e [30] il meno secondo la proporzione aritmetica108 Per questo anche si usa il nome di divkaion [giusto], perché è una divisione divca [in due parti uguali], come se uno dicesse divcaion109 [diviso in due]; così il dikasthv" [giudice] è dicasthv" [colui che divide in due parti uguali] Infatti se, date due grandezze uguali, si toglie una parte alla prima e la si aggiunge alla seconda, la seconda viene a superare la prima del doppio di questa parte; se, invece, si toglie una parte alla prima senza aggiungerla alla seconda, [1132b] la seconda supera la prima solo di questa parte In conclusione, la seconda grandezza supererà il mezzo di una sola parte, e il mezzo supererà di una sola parte la grandezza da cui tale parte sarà stata tolta Con questo procedimento, quindi, possiamo riconoscere che cosa si deve togliere a chi di più e che cosa si deve aggiungere a chi di meno: infatti, [5] bisogna aggiungere a chi la parte minore quel tanto di cui la metà la supera, e togliere a chi la parte maggiore quel tanto di cui questa supera la metà Siano i segmenti AA´, BB´ e CC´ uguali fra di loro; dal segmento AA´ si tolga AE e si aggiunga a CC´ il segmento CD, in modo che l’intero DCC´ superi EA´ di CD e CZ: per conseguenza, supera BB´ di CD110 [E questo vale anche per le altre arti; [10] esse, infatti, resterebbero distrutte, se ciò che produce la parte attiva in quantità e in qualità non fosse ricevuto nella medesima quantità e la medesima qualità dalla parte passiva.] 111 Questi nomi, perdita e guadagno, sono derivati dallo scambio volontario Infatti, avere di più di ciò che si possiede in proprio si dice guadagnare, ed avere di meno di quanto si aveva in principio si dice perdere: [15] per esempio, nel comperare e nel vendere e in tutti gli altri scambi per i quali la legge concede libertà Quando, poi, lo scambio, ci si trova ad avere né di più né di meno, bensì ciị che già si aveva per conto proprio, si dice che si il proprio e che non si è né perso né guadagnato Cosicché il giusto è una via di mezzo tra una specie di guadagno e una specie di perdita nei rapporti non volontari, e consiste nell’avere, [20] dopo, un bene uguale a quello che si aveva prima [La giustizia come reciprocità La moneta] Ma alcuni ritengono che anche la reciprocità sia giustizia in senso generale, come dicevano i Pitagorici112; essi, infatti, definivano il giusto in generale come il ricevere da un altro quello che gli si è fatto subire Ma la nozione di reciprocità non si adatta né alla giustizia distributiva né a quella correttiva, [25] benché si voglia che questo significhi anche la giustizia di Radamante113: "se uno subisse ciò che fatto, giudizio retto sarebbe"114 In molti casi, infatti, giustizia e reciprocità sono in disaccordo Esempio: se è uno che una carica pubblica che picchia, non deve essere picchiato a sua volta, e se è un privato che picchia un magistrato, [30] non solo deve essere picchiato, ma ulteriormente punito Inoltre, c’è molta differenza tra l’atto volontario e l’atto involontario Nelle comunità, poi, in cui avvengono degli scambi è questo tipo di giustizia che tiene uniti, la reciprocità secondo una proporzione, e non secondo stretta uguaglianza Infatti, è col contraccambiare proporzionalmente che la città sta insieme Gli uomini, infatti, cercano di rendere o male per male (se no, [1133a] pensano che la loro sia schiavitù), o bene per bene (se no, non c’è scambio, e, invece, è per lo scambio che stanno insieme) Ed è per questo che costruiscono un tempio alle Grazie115 in luogo dove sia sempre sotto gli occhi, per stimolare alla restituzione, giacché questo è proprio della gratitudine: si deve rendere il contraccambio [5] a chi è stato gentile noi, cioè prendere noi stessi l’iniziativa di essere a nostra volta gentili Ciò che rende la restituzione conforme alla proporzione è la congiunzione in diagonale116 Sia A un architetto, B un calzolaio, C una casa, D una scarpa Posto questo, bisogna che l’architetto riceva dal calzolaio il prodotto del suo lavoro e [10] che dia a lui in cambio il prodotto del proprio Quando, dunque, prima si sia determinata l’uguaglianza proporzionale e poi si realizzi la reciprocità, si verificherà ciò che abbiamo detto Se no, lo scambio non è pari e non si costituisce: niente, infatti, impedisce che il prodotto dell’uno valga di più di quello dell’altro: bisogna, dunque, che il loro valore venga parificato E questo vale anche per le altre arti: esse infatti resterebbero distrutte [15] se ciò che produce la parte attiva in quantità ed in qualità non fosse ricevuto nella medesima quantità e la medesima qualità dalla parte passiva117 Infatti, non è tra due medici che nasce una comunità di scambio, ma tra un medico e un contadino, ed in generale tra individui differenti, non uguali: ma questi devono venire parificati È per questo che le cose di cui v’è scambio devono essere in qualche modo commensurabili [20] A questo scopo è stata introdotta la moneta, che, in certo qual modo, funge da termine medio: essa, infatti, misura tutto, per conseguenza anche l’eccesso e il difetto di valore, quindi anche quante scarpe equivalgono ad una casa o ad una determinata quantità di viveri Bisogna, dunque, che il rapporto che c’è tra un architetto e un calzolaio ci sia anche tra un determinato numero di scarpe e una casa o un alimento Infatti, se questo non avviene, non ci sarà scambio né comunità [25] E questo non si attuerà, se i beni da scambiare non sono in qualche modo uguali Bisogna, dunque, che tutti i prodotti trovino la loro misura in una sola cosa, come abbiamo detto prima E questo in realtà è il bisogno, che unifica tutto: se gli uomini, infatti, non avessero bisogno di nulla, o non avessero gli stessi bisogni, lo scambio non ci sarebbe o non sarebbe lo stesso E come mezzo di scambio per soddisfare il bisogno è nata, per convenzione, la moneta [30] E per questo essa il nome di novmisma [moneta], perché non esiste per natura ma per novmo" [legge] 118, e perché dipende da noi cambiarne il valore o renderla senza valore Ci sarà, dunque, reciprocità, quando si sarà proceduto alla parificazione, cosicché il rapporto tra un contadino e un calzolaio sarà uguale al rapporto tra il prodotto del calzolaio e quello del contadino [1133b] Ma non bisogna mettere i termini in forma di proporzione quando lo scambio è avvenuto (se no, uno dei due estremi avrà entrambi i vantaggi), ma quando ciascuno ancora i propri prodotti Così essi sono uguali ed in comunità di scambio, perché nel loro caso questa uguaglianza può verificarsi Sia A un contadino, C dei viveri, [5] B un calzolaio, ed il suo prodotto uguagliato a C sia D: ma, se non fosse possibile realizzare la reciprocità in questo modo, non ci sarebbe neppure una comunità di scambio Che sia, poi, il bisogno che unifica come se fosse qualcosa di unico ed unitario, lo mette in evidenza il fatto che se gli uomini non hanno bisogno l’uno dell’altro, le due parti, o una sola delle due, non ricorrono allo scambio, come nel caso in cui uno bisogno di ciò che lui stesso possiede, per esempio di vino, mentre gli offrono la possibilità di esportare frumento119 [10] Qui, dunque, bisogna che sia stabilita un’uguaglianza120 Per lo scambio futuro, se al presente non si bisogno di nulla, la moneta è per noi una specie di garanzia che esso sarà possibile, se ce ne sarà bisogno, giacché deve essere possibile a chi porta moneta ricevere ciò di cui bisogno Anche la moneta subisce il medesimo inconveniente, quello di non avere sempre il medesimo potere di acquisto; tuttavia, tende piuttosto a rimanere stabile È per questo che tutte le merci devono [15] essere valutate in moneta: così, infatti, sarà sempre possibile uno scambio, e, se sarà possibile lo scambio, sarà possibile anche la comunità Dunque, la moneta, come misura, parifica le merci, perché le rende fra loro commensurabili: infatti, non ci sarebbe comunità senza scambio, né scambio senza parità, né parità senza commensurabilità In verità, sarebbe impossibile rendere commensurabili cose tanto differenti, [20] ma ciò è possibile in misura sufficiente in rapporto al bisogno Per conseguenza, ci deve essere una unità, ma questa c’è per convenzione: perciò si chiama nomisma [moneta], perché è questa che rende tutte le cose commensurabili: tutto, infatti, si misura in moneta Sia A una casa, B dieci mine, C un letto A è la metà di B, se la casa vale cinque mine, cioè è uguale a cinque mine; il letto C, poi, [25] vale un decimo di B: è chiaro allora quanti letti sono uguali ad una casa: cinque Ma che così lo scambio fosse possibile anche prima che ci fosse la moneta, è chiaro: non c’è, infatti, alcuna differenza tra dare per una casa cinque letti o il valore di cinque letti in moneta Che cosa è l’ingiusto e che cosa il giusto s’è detto [30] Dalle distinzioni fatte risulta chiaro che l’agire giustamente è la via di mezzo tra commettere e subire ingiustizia: commettere ingiustizia significa avere di più, subirla significa avere di meno La giustizia è una specie di medietà, ma non allo stesso modo delle altre virtù, bensì perché essa aspira al giusto mezzo, [1134a] mentre l’ingiustizia mira agli estremi La giustizia è la disposizione secondo la quale l’uomo giusto è definito come uomo portato a compiere, in base ad una scelta, ciò che è giusto, e a distribuire sia tra se stesso e un altro, sia tra due altri, non in modo da attribuire a se stesso la parte maggiore e al prossimo la parte minore del bene desiderato [5] (o viceversa nel caso di qualcosa di dannoso), ma da attribuire a ciascuno una parte proporzionalmente uguale, e da procedere allo stesso modo anche quando si tratta di farlo tra altre persone L’ingiustizia, invece, è la disposizione secondo la quale l’ingiusto è definito come il contrario del giusto121 E l’ingiusto è eccesso e difetto di ciò che è vantaggioso o dannoso in violazione della proporzione Per questo l’ingiustizia è eccesso e difetto, perché essa produce eccesso e difetto: [10] quando uno è coinvolto nella distribuzione, essa produrrà per lui un eccesso di ciò che in generale è vantaggioso e difetto di ciò che è dannoso; quando la distribuzione è tra due altri il totale è lo stesso, ma la violazione della proporzione può avvenire a favore dell’uno o a favore dell’altro Nell’atto ingiusto avere la parte minore è subire ingiustizia, avere la parte maggiore è commettere ingiustizia Si consideri in questo modo concluso il discorso su giustizia e ingiustizia, su quale sia [15] la natura di ciascuna delle due, e, parimenti, sul giusto e l’ingiusto in generale [La giustizia nella società e nella famiglia] Ma dal momento che è possibile commettere ingiustizia senza essere ingiusti, quale natura hanno gli atti ingiusti che uno deve commettere per essere ingiusto secondo ciascun tipo di ingiustizia? Per esempio, per essere ladro, adultero, lestofante? Non bisognerà rispondere che da questo punto di vista non c’è alcuna differenza? E, in effetti, [20] un uomo potrebbe stare insieme una donna sapendo chi sta, ma l’origine del suo atto potrebbe non essere una scelta, ma una passione Commette, dunque, ingiustizia, ma non è un ingiusto: per esempio, non è un ladro pur avendo rubato, non è adultero pur avendo commesso adulterio, e lo stesso negli altri casi In che rapporto stia il reciproco il giusto è stato detto prima122 Ma non bisogna dimenticare [25] che ciò che andiamo cercando è sia il giusto in generale sia il giusto politico Quest’ultimo si attua tra coloro che vivono in comunità per raggiungere l’autosufficienza, tra uomini liberi ed uguali, proporzionalmente o aritmeticamente, sicché coloro che non sono né liberi né uguali non hanno nei loro rapporti reciproci la giustizia politica, ma una specie di giustizia, chiamata [30] così per analogia Infatti, la giustizia esiste solo per coloro i cui rapporti sono regolati da una legge; ma la legge c’è per uomini tra i quali può esserci ingiustizia, perché la giustizia legale è discernimento del giusto e dell’ingiusto Negli uomini tra cui può esserci ingiustizia c’è anche l’agire ingiustamente (ma non in tutti coloro che agiscono ingiustamente c’è ingiustizia), e questo consiste nell’attribuire a sé la parte maggiore dei beni in generale e la parte minore dei mali in generale [35] Per questo non permettiamo che abbia autorità un uomo, ma la legge123, perché un uomo la eserciterebbe solo per il proprio interesse e diverrebbe un tiranno [1134b] Ma chi esercita l’autorità è custode della giustizia, e se è custode della giustizia, lo è anche dell’uguaglianza E poiché si riconosce che egli non niente di più di ciò che gli spetta, se è vero che è un uomo giusto (infatti, non prende per sé una parte troppo grande del bene in generale, a meno che non sia proporzionale al suo merito; perciò [5] si dà da fare per gli altri: e per questo si dice che la giustizia è un bene degli altri, come s’è detto anche prima124), per questa ragione, dunque, bisogna dargli un compenso, e questo compenso consiste in un onore o in un privilegio Coloro quali simili compensi non bastano, diventano tiranni La giustizia del padrone e quella del padre non sono identiche a queste forme di giustizia, ma simili: non è possibile, infatti, [10] ingiustizia nei confronti di ciò che è nostro in senso assoluto, e lo schiavo e il figlio, finché non abbia raggiunto una certa età e non sia diventato indipendente, sono come parte di noi125, e nessuno sceglie deliberatamente di danneggiare se stesso: perciò non è possibile ingiustizia verso se stessi; per conseguenza, neppure ingiustizia né giustizia in senso politico Il giusto in senso politico, l’abbiamo visto 126, è conformità ad una legge, e si realizza tra uomini che per natura sono soggetti ad una legge; e costoro sono, come s’è detto, [15] quelli che partecipano in misura uguale al governare e all’essere governati127 Perciò il giusto si realizza più verso la moglie che verso il figlio e gli schiavi: quella tra marito e moglie è la vera e propria giustizia domestica, ma anche questa è diversa dalla giustizia in senso politico [La giustizia naturale e la giustizia positiva] Del giusto in senso politico, poi, ci sono due specie, quella naturale e quella legale: è naturale il giusto che dovunque la stessa validità, [20] e non dipende dal fatto che venga o non venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è affatto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è indifferente una volta che sia stato stabilito Per esempio, che il riscatto di un prigioniero sia di una mina, che si deve sacrificare una capra e non due pecore, e inoltre tutto quello che viene stabilito per legge per i casi particolari, per esempio, il sacrificio in onore di Brasida128, e le norme derivate da decreti popolari Alcuni ritengono che tutte [25] le norme appartengano a questo secondo tipo di giustizia, perché ciò che è per natura è immutabile ed dovunque la stessa validità (per esempio, il fuoco brucia qui da noi come in Persia), mentre essi vedono che le norme di giustizia sono mutevoli Ma questo non è vero in senso assoluto, bensì solo in un certo senso: anzi, almeno tra gli dèi, certamente, non è affatto vero, mentre tra noi uomini c’è una specie di giusto per natura, benché sia tutto mutevole; [30] pur tuttavia, c’è un tipo di giusto che si fonda sulla natura ed uno che non si fonda sulla natura Ora, tra le norme che possono essere anche diverse, è chiaro quale sia per natura e quale non sia per natura ma per legge, cioè per convenzione, se è vero che sia la natura sia la legge sono mutevoli La medesima distinzione è adatta anche negli altri casi: per natura, infatti, la mano destra è più forte, eppure è possibile per chiunque [35] diventare ambidestro Le norme di giustizia stabilite per convenzione e per fini utili [1135a] sono simili alle misure: infatti, le misure per il vino e per il grano non sono uguali dappertutto, ma dove si compra all’ingrosso sono più grandi, dove si rivende sono più piccole Parimenti, anche le norme di giustizia che non derivano dalla natura ma dall’uomo non sono le stesse dappertutto, perché non sono le stesse le costituzioni, [5] ma una soltanto è dappertutto la migliore per natura Ciascun tipo di norma giuridica, cioè di legge, è come l’universale nei riguardi del particolare; le azioni compiute, infatti, sono molte, ma ciascuna delle norme è una: la norma è un universale C’è differenza, poi, tra atto e cosa ingiusta e atto e cosa giusta: giacché una cosa è ingiusta [10] o per natura o per una prescrizione di legge Questa stessa cosa, quando è stata tradotta in azione, è un atto ingiusto, ma, prima di essere compiuta, non è ancora un atto ingiusto, bensì una cosa ingiusta Lo stesso vale anche per l’atto di giustizia: in senso generale si chiama piuttosto "azione giusta", mentre "atto di giustizia" si chiama l’atto che corregge un atto di ingiustizia Ma su ciascun tipo di legge, sulla natura e sul numero delle loro forme [15] e sulla natura dei loro oggetti si dovrà indagare in seguito129 [Ingiustizia e responsabilità] Essendo le cose giuste e ingiuste quelle che noi abbiamo descritto, si commette ingiustizia e si agisce giustamente quando si compiono quelle azioni volontariamente; ma quando si agisce involontariamente, non si compie né un atto di ingiustizia né un atto di giustizia, se non per accidente, nel senso che si compiono azioni cui accade di essere giuste o ingiuste Ma che un atto sia definito ingiusto e [20] giusto dipende dal fatto che sia volontario o involontario: quando, infatti, è volontario, viene biasimato, e nello stesso tempo, ma allora solamente, è anche un atto di ingiustizia Cosicché sarà qualcosa di ingiusto ma non ancora un atto di ingiustizia, se non si aggiunge la volontarietà E intendo per volontario, come s’è detto anche prima130, quell’atto, tra gli atti che dipendono da lui, che uno compie consapevolmente, [25] cioè non ignorando chi ne è l’oggetto, né il mezzo, né il fine (per esempio, chi è che sta picchiando, che cosa e per quale scopo), e ciascuno di questi aspetti dell’azione non è né accidentale né forzato (per esempio, se qualcuno prende la mano di un altro e picchia un terzo, il secondo non agisce volontariamente, perché l’atto non dipende da lui) Può capitare che l’uomo picchiato sia suo padre, e che egli sappia, sì, che è un uomo ed uno di quelli che gli stanno intorno, [30] ma ignori che è suo padre Una distinzione simile si può fare anche nel caso del fine e nel caso dell’intero svolgimento dell’azione In conclusione, ciò che si ignora, o ciò che non si ignora ma non dipende da noi, o ciò che si compie per forza è involontario Infatti, noi compiamo e subiamo consapevolmente molte azioni anche naturali, [1135b] nessuna delle quali è né volontaria né involontaria, come, per esempio, invecchiare o morire E, parimente, nel caso delle cose ingiuste e di quelle giuste è possibile anche che si trovi il giusto e l’ingiusto per accidente Infatti, uno potrebbe restituire un deposito contro voglia [5] e per paura, ma di lui non si deve dire che fatto cose giuste né che agito giustamente, se non per accidente Lo stesso vale per chi, costretto e contro voglia, non restituisce il deposito: bisogna dire che commette ingiustizia e fa cose ingiuste per accidente Degli atti volontari, poi, alcuni li compiamo in conseguenza di una scelta, altri, invece, senza una scelta: [10] in base ad una scelta quegli atti che abbiamo deliberato in precedenza, e senza scelta quelli che non abbiamo deliberato in precedenza Sono dunque tre i tipi di danno che possono verificarsi nelle comunità Quelli che sono accompagnati da ignoranza sono degli errori, come quando si agisce senza che la persona che subisce l’azione o ciò che si fa o il mezzo o il fine siano quelli che si supponeva: infatti, o non si credeva di colpire o non questo strumento o non questa persona o non questo scopo, [15] ma le cose sono andate in modo diverso dallo scopo che si pensava di raggiungere (per esempio, si è colpito non per ferire ma solo per pungere, e non quest’uomo o questo strumento) Quando, dunque, il danno si produce contro ogni ragionevole aspettazione, si tratta di una disgrazia; quando, invece, non si produce contro ogni ragionevole aspettazione, ma senza cattiveria, si tratta di un errore (si erra infatti quando l’origine della colpa è in colui stesso che agisce; si tratta di una disgrazia quando l’origine della colpa è fuori di lui) Quando, poi, [20] uno agisce consapevolmente ma senza precedente deliberazione, si l’atto ingiusto, come, per esempio, tutto quanto si fa per impulsività e per altre passioni, almeno per quelle che accade agli uomini di provare per necessità o per natura Coloro che procurano questi danni e commettono questi errori, commettono, sì, ingiustizia, e i loro sono atti ingiusti, ma tuttavia non sono ancora, per questo, ingiusti né malvagi: il danno, infatti non è stato causato da malvagità [25] Quando, invece, esso deriva da una scelta è ingiusto e malvagio Perciò è a buon diritto che si giudicano fatti senza premeditazione gli atti derivanti dall’impulsività: il principio del danno non è chi agisce per impulsività, ma colui che ne suscitato l’ira Inoltre, non si discute se il fatto è accaduto oppure no, ma della sua giustizia: l’ira infatti nasce di fronte a ciò che appare come ingiustizia Infatti, qui non è in discussione la realtà del fatto come nel caso dei contratti, [30] dove uno dei due contraenti è necessariamente in mala fede, a meno che non si faccia quello che si fa per dimenticanza: ma, pur essendo d’accordo sulla questione di fatto, si discute per sapere da che parte sta la giustizia (mentre chi premeditato non può ignorarlo), sicché l’uno pensa che gli venga fatta ingiustizia, mentre l’altro pensa di no [1136a] Quando si infligge un danno in base ad una scelta deliberata, si commette ingiustizia, e colui che commette ingiustizia compiendo questo tipo di atti ingiusti è propriamente ingiusto, quando questi atti violano la proporzione o l’uguaglianza Parimenti un uomo è giusto, quando compie un atto di giustizia sulla base di una scelta deliberata: ma compie un atto di giustizia soltanto se agisce volontariamente [5] Le azioni involontarie, poi, in parte sono perdonabili, in parte no Sono perdonabili gli errori compiuti non solo in stato di ignoranza, ma proprio a causa di questa ignoranza; non sono perdonabili, invece, gli errori commessi non a causa dell’ignoranza, ma in uno stato di ignoranza causato da una passione né naturale né umana [È possibile subire ingiustizia volontariamente?] [10] Ci si potrà porre la questione se le nostre distinzioni riguardo al subire e al commettere ingiustizia siano sufficienti, e innanzi tutto se sia come detto, stranamente, Euripide: "Ho ucciso mia madre: è breve il racconto." "Hai ucciso volontariamente lei che lo voleva o hai ucciso [involontariamente lei che non voleva?"131 [15] In effetti, è possibile subire volontariamente ingiustizia, oppure no, ma c’è sempre qualcosa di involontario, proprio come il commettere ingiustizia è sempre volontario? Inoltre, il subire ingiustizia è sempre volontario, o sempre involontario, come anche il commettere ingiustizia è sempre volontario132, oppure a volte è volontario e a volte involontario? Lo stesso si dica anche per quanto concerne il ricevere giustizia, giacché il compiere atti di giustizia è sempre volontario Cosicché è ragionevole [20] che ci sia un’analoga contrapposizione tra le due cose, cioè che il subire ingiustizia ed il ricevere giustizia siano o entrambi volontari o entrambi involontari Sarebbe strano pensare che questo valga anche nel caso del ricevere giustizia, se ciò è sempre volontario: infatti alcuni ricevono giustizia contro la loro volontà Poi si potrebbe porre anche la questione se chiunque subisce qualcosa di ingiusto riceve ingiustizia, oppure se quello che vale per l’agire [25] vale anche per il subire: per accidente, infatti, è possibile in entrambi i casi partecipare di cose giuste Parimenti, poi, è chiaro che ciò vale anche nel caso delle cose ingiuste: infatti, fare cose ingiuste non è lo stesso che commettere ingiustizia, e subire cose ingiuste non è lo stesso che subire ingiustizia Lo stesso si dica per quel che concerne il compiere atti di giustizia ed il ricevere giustizia, [30] giacché è impossibile subire ingiustizia senza che qualcuno compia ingiustizia, o ricevere giustizia senza che qualcuno compia un atto di giustizia Se commettere ingiustizia in generale significa danneggiare volontariamente qualcuno, e se "volontariamente" significa sapere chi si danneggia, quale strumento ed in che modo, e se l’incontinente danneggia se stesso volontariamente, allora è volontariamente che subirà ingiustizia e che potrà commettere ingiustizia verso se stesso Anche questa è una cosa da mettere in questione, cioè se è possibile commettere ingiustizia verso se stessi [1136b] Inoltre, per incontinenza uno potrebbe essere volontariamente danneggiato da un altro che volontariamente lo danneggia, cosicché sarà possibile subire ingiustizia volontariamente O si deve riconoscere che la definizione non è corretta, e che invece a "danneggiare sapendo chi si danneggia, quale strumento ed in che modo" bisogna aggiungere "contro la volontà del danneggiato"? [5] Posto questo, uno può volontariamente essere danneggiato e subire cose ingiuste, ma nessuno può subire ingiustizia volontariamente: nessuno, infatti, lo vuole, neppure l’incontinente, ma costui agisce contro la propria volontà Nessuno, infatti, vuole ciò che non crede che sia buono, e l’incontinente fa ciò che lui stesso pensa che non si debba fare Chi dona ciò che gli appartiene, come dice Omero [10] che abbia fatto Glauco donando a Diomede "armi d’oro in cambio d’armi di bronzo, il valore di cento buoi in cambio di nove"133, non subisce ingiustizia: infatti, dipende da lui donare, ma non dipende da lui subire ingiustizia, bensì bisogna che ci sia chi l’ingiustizia la commetta È chiaro quindi che non si subisce ingiustizia volontariamente [15] Delle questioni che ci siamo proposti ne restano ancora due da discutere: se commette ingiustizia chi attribuisce ad un altro più di quanto merita oppure chi riceve più di quanto merita, e se è possibile commettere ingiustizia verso se stessi Se, infatti, è possibile quello che si è detto prima ed è colui che attribuisce più del dovuto che commette ingiustizia e non chi lo riceve, nel Jürgen Habermas: teoria discorsiva del diritto nella democrazia deliberativa Filosofo e sociologo tedesco (n Düsseldorf 1929), laureato a Marburg, docente all’Institut für Sozialforschung di Francoforte dal 1956, all’univ di Heidelberg dal 1961, a quella di Francoforte dal 1964; dal 1971 direttore del Max-Planck-Institut di Starnberg (Monaco), e dal 1983 prof all’univ di Francoforte Allacciandosi alle tesi della Scuola di Francoforte e al pensiero di Peirce, dato particolare risalto problemi della comunicazione e alla funzione dell’opinione pubblica nella società contemporanea, rivendicando il ruolo politico ed emancipatore della razionalità come dialogo libero e non soggetto a condizioni di dominio Tra le sue opere: Strukturwandel der Öffentlichkeit (1962; trad it Storia e critica dell’opinione pubblica); Theorie und Praxis (1963; trad it Teoria e prassi); Technik und Wissenschaft als Ideologie (1964); Erkenntnis und Interesse (1968; trad it Conoscenza e interesse); Philosophisch-politische Profile (1971; trad it Profili politico-filosofici); Kultur und Kritik (1973; trad it Cultura e critica); Zur Rekonstruktion des historischen Materialismus (1976; trad it Per la ricostruzione del materialismo storico); Theorie des kommunikativen Handelns (1981; trad it Teoria dell’agire comunicativo); Moralbewusstsein und kommunikatives Handeln (1983; trad it Etica del discorso); Der philosophische Diskurs der Moderne (1985; trad it Il discorso filo;sofico della modernità); Nachmetaphysisches Denken (1988; trad it Il pensiero postmetafisico); Texte und Kontexte (1991; trad it Testi filosofici e contesti storici); Die Zukunft der menschlichen Natur (2001; trad it Il futuro della natura umana), in cui affronta il tema delle nuove discipline scientifiche e di come si inseriscano nel panorama gnoseologico; Der gespaltete Westen (2004; trad it L’Occidente diviso), una miscellanea di articoli, saggi e conferenze; Dialektik der Säkularisierung Über Vernunft und Religion (2005; trad it Ragione e fede in dialogo), nato dalle riflessioni sulle interrelazioni tra democrazia e religione maturate in un incontro il futuro pontefice J Ratzinger, a Monaco, presso la Katholische Akademie Sugli stessi temi nel 2005 scritto Zwischen Naturalismus und Religion (trad it Tra scienza e fede), in cui propone il superamento dell’atavica frattura tra religione e laicità 20 Law and Morals, THE TANNER LECTURES ON HUMAN VALUES Harvard University, 1986, cfr http://tannerlectures.utah.edu/_documents/a-to-z/h/habermas88.pdf Fatti e norme (Faktizität und Geltung, Frakfurt 1992, trad it L Ceppa, Milano 1996) Prefazione Il diritto: una categoria di mediazione sociale tra i fatti e le norme 1.1 Significato e verità: la tensione linguistica di fattualità e validità - 1.2 Trascendenza dall’interno: la neutralizzazione del rischio di dissenso operata dal mondo di vita e dalle istituzioni arcaiche - 1.3 Le dimensioni della validità giuridica Sociologie del diritto e filosofie della giustizia 2.1 Il disincantamento sociologico del diritto - 2.2 Il ritorno del diritto naturale moderno e la cosiddetta impotenza del dover-essere - 2.3 Parsons vs Weber: la funzione sociointegrativa del diritto Ricostruzione del diritto (1): il sistema dei diritti 3.1 Autonomia privata e pubblica, diritti umani e sovranità popolare - 3.2 Norme morali e norme giuridiche: la complementarità di diritto positivo e morale di ragione - 3.3 Fondazione discorsiva dei diritti fondamentali: principio di discorso, forma giuridica e principio democratico, Ricostruzione del diritto (2): i princìpi dello Stato di diritto 4.1 Il nesso interno di diritto e politica - 4.2 Potere comunicativo e genesi del diritto - 4.3 Princìpi dello Stato di diritto e logica della divisione dei poteri Indeterminatezza del diritto e razionalità della giurisprudenza 5.1 Ermeneutica, realismo e positivismo - 5.2 La teoria dei diritti di Dworkin - 5.3 Per una teoria del discorso giuridico Giurisdizione e legislazione: ruolo e legittimità della giurisprudenza costituzionale 6.1 Dissolvimento del paradigma giuridico liberale - 6.2 Norme vs valori: errori metodologici nell’autocomprensione della Corte costituzionale - 6.3 Il ruolo delle Corti costituzionali nelle concezioni liberale, repubblicana e proceduralista della politica La politica deliberativa: un concetto procedurale di democrazia 7.1 Modelli normativi e modelli empiristici di democrazia - 7.2 Neutralità delle procedure democratiche 7.3 Traduzione sociologica del concetto normativamente sostantivo di politica deliberativa Il ruolo della società civile e della sfera pubblica politica 8.1 Teorie sociologiche della democrazia - 8.2 Un modello per la circolazione del potere politico - 8.3 Società civile, opinione pubblica e potere comunicativo Paradigmi del diritto 20 http://www.treccani.it/enciclopedia/jurgen-habermas_(Dizionario-di-filosofia)/ Cfr http://www.habermasforum.dk/ 9.1 Materializzazione del diritto privato - 9.2 Dialettica di eguaglianza giuridica ed eguaglianza fattuale L’esempio delle pari opportunità femminili - 9.3 Crisi dello Stato di diritto e concezione proceduralista del diritto L Ceppa, Dispense habermasiane, Torino, Trauben 2001 Nota introduttiva: Un riassunto in sei punti Le “sei questioni fondamentali” cui Fatti e norme – uno dei massimi testi di filosofia politica del secolo scorso – vuole dare risposta sono illustrate dallo stesso Habermas in un breve intervento del giugno 1998 all’Istituto Universitario Europeo di Firenze (ora in “Ragion pratica” 1998/10, pp 153-159, col titolo: La fondazione discorsiva del diritto) Partiamo dal riassunto di tali questioni, per poi allargare il discorso ad alcune opzioni fondamentali del normativismo di Habermas La prima questione riguarda forma e funzione del diritto moderno Schierandosi Durkheim e Parsons contro Weber, Habermas vede nell’armamentario giuridico moderno un collante integrativo della società e non semplicemente uno strumento machiavellico del potere Senonché la legittimazione giuridica del potere politico non rinvia più a una visione metafisica del mondo, ma semplicemente alle dimensioni funzionali (soggettive, formali, moralmente neutralizzate) di una legalità che tutela le dimensioni private e pubbliche dell’autonomia La seconda questione riguarda il rapporto tra diritto e morale Il modello habermasiano dà parzialmente ragione sia positivisti sia giusnaturalisti Per un verso la legittimità giuridica non va confusa la validità morale, per l’altro verso il diritto non può essere completamente separato dalla morale (nel senso che il diritto non può mai contraddire la morale, ma deve – per essere legittimo e meritare ottemperanza – “armonizzare” essa) La terza questione è relativa al rapporto tra diritti umani e sovranità popolare A differenza dell’autonomia morale, l’autonomia giuridica due facce: privata e pubblica La secolare controversia tra liberalismo e democrazia viene risolta da Habermas a partire dalla “cooriginarietà” dei due aspetti Le persone giuridiche del diritto privato possono essere veramente autonome soltanto se esse, attivandosi sul piano del diritto pubblico, sanno esercitare i loro diritti civici e intendersi come gli autori di quelle stesse norme cui sono, per altro verso, destinatari (L’ultimo intervento di Habermas su questo tema per titolo Stato di diritto e democrazia: nesso paradossale di princìpi contraddittori?, ed è apparso in “Teoria politica” XVI, 3/2000, pp 3-17) La quarta questione riguarda la funzione epistemica della democrazia Perché la democrazia è la procedura più legittima – la più accettabile ed efficace – per affrontare i problemi delle società contemporanee? Qui la ragione autolegislativa di Rousseau e Kant viene tradotta da Habermas nei termini del “reason giving”, cioè di una ragione discorsiva, deliberativa, dibattimentale La struttura della comunicazione (struttura legittimante in quanto procedurale) deve creare uno “spazio pubblico” mobilitante i contributi migliori per le questioni più rilevanti, laddove la legittimazione “dipende da una adeguata istituzionalizzazione giuridica di quelle forme di discorso razionale, e di equa trattativa, che fondano la presunzione di una accettabilità razionale dei risultati” La quinta questione riguarda il ruolo centrale della comunicazione pubblica (e risulta essere semplicemente una conseguenza della risposta data alla quarta questione) Gli aspetti sociostrutturali della comunicazione democratica sono più importanti delle buone intenzioni individuali In questo senso la democrazia è selettiva e inclusoria nello stesso tempo Essa per un verso “filtra” preferenze, interessi e motivazioni rendendoli pubblicamente presentabili (effetto “laundering”, per così dire lavante e stirante) Per l’altro verso innesca (al contrario di quanto pensava Foucalt) un inarrestabile processo di inclusione e allargamento del riconoscimento In tal modo il modello habermasiano può fare interagire gli aspetti normativi della democrazia (come idea di autolegislazione) gli aspetti fattuali, sistemici ed empirici del potere automatizzato (ad es l’autoriproduzione capitalistica di cui parlava Marx o la burocrazia come “gabbia di acciaio” di cui parlava Weber) La sesta ed ultima questione riguarda la proposta habermasiana di un terzo modello di diritto, il diritto proceduralista , cui toccherebbe il compito di rimpiazzare (mediandoli dialetticamente dall’interno) sia il modello liberale del diritto privato sia il modello assistenziale dei diritti sociali Anche questa proposta poggia in Habermas sulla “cooriginarietà” di autonomia privata e autonomia pubblica Spetta infatti direttamente cittadini – che soffrono sulla loro pelle le disfunzioni degli apparati e pagano di persona la ristrutturazione dello stato sociale – di dire volta per volta quali devono essere le forme e i criteri più adeguati per valutare giusto e ingiusto, eguale e diseguale Invece il privatismo liberale e il paternalismo di welfare si limitavano, di fatto, a litigare sulle modalità cui meglio garantire l’autonomia privata: direttamente le libertà negative del diritto privato oppure indirettamente tramite le prestazioni assistenziali dello stato sociale?Anche qui l’idea normativa della partecipazione civica subisce in Habermas una lettura pragmatica e (lungi dal contrapporsi velleitariamente alle dimensioni sistemiche delle società complesse) diventa un indispensabile “prerequisito epistemico” per il buon funzionamento di mercato e burocrazia Quello che la rete non sa fare Il filosofo intervistato da Markus Schwering (22 luglio 2014)21 M.S Signor Habermas, la prossima settimana lei compirà 85 anni Che cosa significa per lei – alla sua età – “vivere il presente”? Quale filo la collega al mondo dei suoi figli e nipoti? J.H Sta pensando a una qualche “passione per il presente”? Sì, seguo sempre passione gli sviluppi della politica D’altro canto, veder schiacciare sul passato della storia la propria generazione fa un po’ l’effetto di uno “scuoiamento” Ieri ho ricevuto la prima copia di una mia biografia[1] scritta da Stefan Müller-Doohm Anche se la persona dell’autore, di cui ho la massima stima, non me ne darebbe motivo, io ho paura ad affrontare questo libro Quanto miei figli, che sono già grandi, ho l’impressione che condividano tutto sommato le idee politiche e intellettuali dei loro genitori Solo i miei nipoti sembrano già vivere già in un’altra epoca… M.S Retrospettivamente parlando, quali sono state le sue esperienze più importanti che la hanno indirizzato sul piano intellettuale e sul piano pratico? J.H Le esperienze intellettuali si lasciano facilmente ricondurre a determinati personaggi Il mio primo filosofo l’ho incontrato nella figura di Karl-Otto Apel, che mi è stato prima mentore e poi amico Lo straordinario privilegio di lavorare Adorno mi fatto toccare da vicino un modo di pensare che è illuminante e affascinante nello stesso tempo Anche Wolfgang Abendroth e HansGeorg Gadamer sono ancora stati – per me – come una sorta di ultimi maestri accademici Dopo di che ho potuto imparare da un’intera generazione di “peers” al di qua e al di dell’Atlantico Ho avuto soprattutto la fortuna d’incontrare sulla mia strada dei collaboratori brillanti, che mi hanno aiutato in tutte le svolte del mio pensiero Questi sono stati, tutto sommato, i miei stimoli intellettuali Ma lei chiede anche delle esperienze “sul piano pratico” Chiunque sia sposato da sessant’anni e abbia figli, sa che ci sono cose ben più importanti degli stimoli intellettuali… M.S Lei venne subito famoso il suo testo di abilitazione: Strukturwandel der Öffentlichkeit (1961)[2] Il quadro empirico di riferimento è oggi del tutto cambiato La sfera pubblica è infatti stata radicalmente trasformata dai nuovi mass-media Come imposterebbe lei oggi questo lavoro? Come potremmo applicare rapporti presenti quel concetto enfatico – e normativamente impregnato – di “sfera pubblica” democratica cui lei non mai cessato di essere fedele? J.H Oggi vediamo come, persino in Occidente, procedure e istituzioni democratiche possano ridursi a vuote facciate se viene loro a mancare una sfera pubblica funzionante Per converso, il funzionamento delle sfere pubbliche presuppone sempre esigenti condizioni di tipo normativo Infatti i circuiti comunicativi pubblici non dovrebbero essere tagliati fuori dai processi decisionali effettivi In Europa, anche la crisi politica degli ultimi anni ci insegnato molto su questi due aspetti del problema M.S Internet è un vantaggio o uno svantaggio per la democrazia? 21 Intervista pubblicata sul “Feuilleton” della “Frankfurter Rundschau” del 14/15 giugno 2014 Le domande sono di Markus Schwering Titolo originale “Nella spirale dei pensieri Le procedure democratiche sulla rete, in politica, in Europa” Traduzione italiana di Leonardo Ceppa J.H Né l’una cosa né l’altra Dopo le invenzioni della scrittura e della stampa la comunicazione digitale rappresenta la terza grande innovazione sul piano dei media Con la loro introduzione, questi tre media hanno consentito a un sempre maggior numero di persone di accedere, sempre più facilmente, a una massa sempre più grande di informazioni rese sempre più durevoli Con l’ultimo passo rappresentato da internet abbiamo anche una sorta di “attivazione“: gli stessi lettori diventano autori Ma questo, di per sé, non crea automaticamente progresso sul piano della sfera pubblica Nel corso dell’Ottocento – l’aiuto dei libri e dei giornali di massa – abbiamo visto nascere delle sfere pubbliche nazionali dove l’attenzione di un numero indefinito di persone poteva applicarsi simultaneamente sugli stessi identici problemi Questo però non dipendeva dal livello tecnico cui i dati erano moltiplicati, distribuiti, accelerati, resi durevoli Si tratta, in fondo, degli stessi movimenti centrifughi che avvengono anche oggi nel web Piuttosto, la sfera pubblica classica nasceva dal fatto che l’attenzione di un anonimo pubblico di cittadini veniva “concentrata“ su poche questioni politicamente importanti che si trattava di regolare Questo è ciò che la rete non sa produrre: anzi la rete, al contrario, distrae e disperde Pensi per esempio mille portali che nascono ogni giorno: per i collezionisti di francobolli, per gli studiosi di diritto costituzionale europeo, per i gruppi di coscienza degli ex-alcolizzati Nel mare magnum dei rumori digitali queste comunità comunicative sono come arcipelaghi dispersi: ce ne saranno miliardi Ciò che manca a questi spazi comunicativi (chiusi in se stessi) è il collante inclusivo, la forza inclusoria di una sfera pubblica che evidenzi quali cose sono davvero importanti Per creare questa “concentrazione” occorre prima saper scegliere – conoscere e commentare – i temi, i contributi e le informazioni che sono pertinenti Insomma, anche nel mare magnum dei rumori digitali non dovrebbero andare perse quelle competenze del buon vecchio giornalismo che sono oggi non meno indispensabili di ieri M.S Con Zwischen Faktizität und Geltung (1992)[3] lei offerto allo stato liberal-democratico un’imponente base di legittimazione Cosa direbbe se qualcuno le facesse notare: Grazie a Habermas la democrazia vinto sul piano delle idee, resta però il problema di farla vincere nella realtà J.H Direi: uno slogan amichevolmente avvelenato Io ho soltanto illustrato uno dei possibili modelli di democrazia, e l’ho fatto in un senso puramente ricostruttivo, senza bisogno di suonare le trombe dell’utopia La mia ricostruzione poggia sui presupposti pragmatici cui i cittadini non possono fare a meno di aderire tutte le volte che a) vanno a votare, b) portano avanti una causa in tribunale, c) si oppongono allo smantellamento dello stato sociale Quando questi presupposti normativi (di nuovo: che ogni voto abbia nell’urna lo stesso valore, che i giudici siano imparziali, che i governi perseguano i programmi per cui sono stati eletti) vengono sistematicamente violati, allora crollano le pratiche che su di essi poggiano Oppure tali pratiche vengono svuotate dall’interno ad opera del cinismo dei governanti e/o dalla muta apatia dei cittadini M.S In certe critiche recenti, orientate più a Hannah Arendt che non a Carl Schmitt, si è anche sostenuto che il suo modello deliberativo – canalizzato in senso discorsivo – manca il suo obbiettivo in quanto vorrebbe ricostruire il Politico come un astratto processo scientifico-conoscitivo, laddove esso è piuttosto uno scontro violento per impadronirsi e mantenere il potere Che cosa risponde a tali critiche? J.H In una società pluralistica la procedura democratica è l’unica fonte per produrre decisioni riconoscibili come legittime Questa procedura assicura da un lato inclusione (vale a dire partecipazione di tutti i cittadini), dall’altro lato deliberazione (per es campagne elettorali e dibattiti parlamentari, in base a ciò che elettori e legislatori decidono di scegliere) Proprio per via di questo elemento di pubblico dibattito – un dibattito che deve svolgersi prima di andare a votare – il risultato delle elezioni politiche (la spartizione del potere tra i partiti concorrenti) è qualcosa di diverso dalle semplici inchieste demoscopiche Ciò non tanto a che vedere coi processi della conoscenza scientifica, quanto piuttosto l’aspettativa che i problemi politici riescano a trovare una soluzione il più possibile razionale Questa “aspettativa di razionalità” richiede infatti che – nel formulare proposte significative – siano messe pubblicamente sul tavolo informazioni attendibili e buone ragioni In questo processo le ragioni normative hanno spesso un ruolo più importante degli stessi dati empirici o delle certificazioni degli esperti: e comunque devono sempre essere ragioni in grado di “contare” Questa dimensione cognitiva della formazione della volontà (sia dei cittadini che dei politici)[4] diventa ancora più importante quando cresce l’orizzonte d’incertezza in cui dobbiamo prendere le decisioni M.S Un grande tema cui lei è appassionato è l’Europa e la sua unificazione democratica Di recente lei a proposto, in un seminario a Princeton[5], di modificare la costituzione europea nel senso di trasformare il Consiglio dei ministri in una rappresentanza dei singoli stati, facendone una seconda “gamba” legislativa accanto al Parlamento UE Subito si è obbiettato che il progetto europeo vuole superare le vecchie divisioni statali e dunque non dovrebbe fissarne la sopravvivenza in una “casa degli stati” quale organo del potere legislativo Come risponde a questa critica? J.H Questa critica non tiene conto della situazione politica attuale Anche il conflitto sulla nomina di Juncker mostrato dove sta in realtà il problema I capi di governo hanno oggi in Europa lo stesso ruolo semicostituzionale un tempo svolto dal sovrano del vecchio Reich tedesco Occorre perciò stabilire quale quota di potere i capi di governo dovrebbero cedere al Parlamento, in maniera da ridurre quel deficit democratico che grida vendetta Rispetto a una democrazia transnazionale, che faccia a meno di ogni carattere di statualità, il modello federale USA non è quello che dobbiamo imitare Piuttosto bisognerebbe equiparare al Parlamento un Consiglio inteso come il luogo di rappresentanza degli stati Per armonizzare queste due istituzioni legislative occorre istituire delle procedure Lo scontro per insediare il presidente della Commissione dimostra come ancora manchi, a livello europeo, un organico sistema dei partiti, dove questi (nel proporre i loro candidati) possano fin dall’inizio muoversi in accordo il Consiglio M.S Parliamo ora delle tendenze separatiste in Ucraina, Scozia, Belgio ecc Come mai lei aspramente criticato, in più occasioni, il separatismo? La Cechia e la Slovacchia dimostrano che ci si può anche separare senza troppe difficoltà Dal punto di vista storico, la secessione è soltanto una forma diversa di nation-building Perché dobbiamo scomunicarla dal punto di vista normativo? J.H La nazione come sacro principio è stata definitivamente superata a Versailles alla fine della Prima guerra mondiale Invece di promuovere la pace fomentato sempre nuovi conflitti Il motivo è evidente: nessun popolo è etnicamente omogeneo Tracciare nuovi confini significa semplicemente riprodurre in maniera capovolta i rapporti di maggioranza e minoranza Quando Genscher riconosciuto la Croazia come nuovo stato sovrano, contribuendo così alla disgregazione della vecchia Jugoslavia, non fatto altro che aprire la porta più feroci massacri avvenuti in Europa dopo la Seconda guerra mondiale Lo stesso errore si è ripetuto il Kosovo Si tratta dell’ombra lunga che il nazionalismo ottocentesco gettato sul secolo ventesimo E ora vediamo di nuovo risorgere spettri nazionalistici nel cuore dell’Unione europea, la quale non si mostra nemmeno capace di porre freni all’autoritarismo ungherese di un Orban M.S Nel libro dell’anno scorso, Nella spirale della tecnocrazia, lei attaccava duramente la politica europea della signora Merkel Così, in quel suo testo, si volle vedere un aiuto alla campagna elettorale della SPD Ora però i socialisti sono entrati nel governo della Merkel, e la politica tedesca verso l’Europa continua sostanzialmente come prima: lei cambiato idea? Si sente deluso? J.H La SPD si è lasciata trascinare dentro la coalizione Su questo tema non mai voluto contraddire la Merkel Adesso però sarà costretta a farlo, se non vuole tradire il suo candidato europeo Martin Schulz M.S Nel frattempo molti stati debitori stanno per uscire dall’ombrello di protezione Forse che la politica della Merkel non è poi stata così cattiva come si è voluto dipingere? J.H In realtà, nell’eurozona, gli squilibri strutturali delle economie nazionali continuano a crescere Né possiamo proseguire in quella politica di “svalutazione interna” che, nei paesi in crisi, è stata pagata sacrificando gli strati più svantaggiati, le giovani generazioni, le prestazioni assistenziali e infrastrutturali Se lo facessimo, si rafforzerebbe il populismo di destra, si radicalizzerebbero i conflitti tra i popoli, si fomenterebbe l’ostilità antitedesca La Merkel paura di dire questa semplice verità suoi elettori, e dà loro vino adulterato Lo sbaglio di aver fondato una comunità monetaria senza predisporne un controllo politico è stato un errore compiuto “in solido” da tutti gli stati coinvolti Adesso noi tedeschi vorremmo schermarci dall’obbligo di subirne le conseguenze M.S Che cosa le dà la forza di non reagire in maniera disfattistica a ciò che il suo maestro Adorno chiamava “il cattivo corso del mondo”? J.H Contro il cattivo corso del mondo Hegel metteva in campo lo spirito assoluto, laddove Adorno contrastava la disperazione appellandosi – in maniera controfattuale – a una luce messianica Infatti, solo nel cono di questa illuminazione egli poteva denunciare la negatività dell’esistenza Io mi sento piuttosto vicino alla posizione di Kant, cui Adorno giustamente attribuiva il motivo intitolato “inconcepibilità della disperazione” M.S Si sente dire che lei stia lavorando a una grande opera di filosofia della religione, della quale già sono usciti i prolegomeni[6] A che cosa si deve questo suo nuovo interesse per la religione? Si tratta forse dell’irritante esperienza per cui, contro ogni aspettativa, la religione non solo non è stata neutralizzata dalla secolarizzazione della modernità, ma sembra addirittura rinascere in forme nuove e spesso preoccupanti? J.H Se poniamo al centro dell’evoluzione della specie l’adozione del linguaggio quale meccanismo di comunicazione, allora diventa verosimile pensare che – per una specie costitutivamente asociale – i processi di socializzazione debbano essere passati attraverso una forte tensione tra spirito e motivazione Con tutta evidenza fu il “complesso religioso” ciò che tenne insieme e stabilizzò le prime collettività, schermandole dalle tensioni interiori Fin dall’inizio i classici della sociologia hanno individuato nel rito e nel mito la fonte della coscienza normativa e della solidarietà sociale A questo interesse dei sociologi io collego ora la constatazione hegeliana secondo cui molti concetti della filosofia pratica, pur avendo nomi di origine greca, sono sostanzialmente il frutto di un secolare processo di assimilazione e di traduzione semantica di concetti nati nella tradizione ebraico-cristiana Se pensiamo ad autori come Bloch e Benjamin, Buber, Levinas e Derrida, noi vediamo come questa assimilazione non si sia ancora conclusa Tutto ciò – per un pensiero postmetafisico che si preoccupa delle risorse normative di una società mondiale portata fuori strada dal capitalismo – potrebbe essere l’occasione per intraprendere finalmente un cambio di prospettiva La filosofia dovrebbe sapersi mettere in rapporto non solo le scienze ma anche le tradizioni religiose tuttora vitali Non vorrei però essere frainteso: non sto affatto proponendo al pensiero postmetafisico di rinunciare alla sua autocomprensione secolare, ma solo di allargare questa sua autocomprensione in una direzione bifocale M.S Che giudizio dà lei sullo stato della filosofia oggi? In Germania va sempre più di moda il filosofo da talk-show, quello che un tempo si chiamava filosofo popolare Penso a personaggi come Safranski, Sloterdijk, Precht È una cosa buona oppure cattiva? J.H Beh, i nomi che lei cita non sono i veri rappresentanti della filosofia tedesca La filosofia è oggi una professione accademico-scientifica come tutte le altre Dalle altre discipline essa si distingue solo per il fatto che – in quanto pensiero non pre-fissabile – non un “metodo” e un “oggetto” definibili a priori Personalmente sono troppo vecchio per pretendere di dare un giudizio complessivo sullo stato attuale della disciplina Posso però dirle qual è stata la mia esperienza: la mia generazione saputo suscitare interesse e trovare riconoscimento, da parte dei colleghi americani, francesi, e talora persino inglesi, solo nella misura in cui – nel trattare i diversi problemi – siamo stati capaci di mostrare la forza della nostra tradizione, attingendo in maniera sistematica e analitica alle fonti di Kant, Hegel e Marx Oso fare questa raccomandazione sperando di non essere accusabile di provincialismo M.S Lei si è sempre richiamato filosofi antichi che andavano nell’agorà ed esercitavano l’uso pubblico della ragione D’altro canto lei passa anche per un filosofo difficile e i suoi testi sono così complessi da non essere facilmente comprensibili C’è una contraddizione in tutto ciò? J.H O.k i lettori di questa intervista le daranno subito ragione Però vede, io non ho mai avuto come obbiettivo quello di raggiungere un vasto pubblico Non vado nemmeno in televisione Il mio mondo è quello dell’università È vero che concedo troppe interviste e scrivo articoli di giornale, ma di queste mie debolezze si dovrebbero incolpare piuttosto i redattori Ciò cui io miro non è avere tanti lettori, ma far circolare determinate idee M.S Una domanda personale: non le capita mai – come scritto Eduard Mörike in Wintermorgens vor Sonnenaufgang – di svegliarsi la mattina e pensare improvvisamente, come in un incubo, che tutto quanto lei finora pensato e scritto sia sbagliato? E se una esperienza simile le è davvero capitata, come affronta questa insicurezza esistenziale? J.H Es ist ein Augenblick/ Und alles wird verwehen [“In un istante/ Tutto sembra sparire”] Come vede, sono andato a cercare la poesia e verso cui lei fa riferimento Ma ahimé devo deluderla: prima dell’ultimo risveglio non scivolo nel mondo incantevole e fatato di cui parla Mörike Precipito piuttosto nel vortice di pensieri angosciosi Dunque la mia insicurezza potrebbe essere più profonda Se però vogliamo dare alla sua domanda un senso meno drammatico, mettendola semplicemente in relazione i miei lavori accademici, allora le darò una risposta di tipo pragmatico È naturale che ogni singolo enunciato, da me messo per iscritto, possa rivelarsi sbagliato Ma lei in realtà dice: “tutto quanto lei finora pensato e scritto” Dunque, si riferisce all’insieme di tutte le certezze-disfondo Come filosofi – infatti – noi pensiamo sempre sullo sfondo di un orizzonte unificante e di un contesto che ci sostiene Per fortuna questo contesto può sempre rivelarsi sbagliato quando ne esplicitiamo un elemento particolare Come una fascia detritica di montagna, questo sfondo intuitivamente presente scivola e si sposta noi tutte le volte che ci correggiamo o attraversiamo processi di apprendimento Sennonché questo complesso delle certezze-di-sfondo non può mai essere considerato sbagliato, in quanto non può mai – nel suo insieme – essere fatto oggetto di enunciati falsificabili.22 22 Note [1][S Müller-Doohm, Jürgen Habermas Eine Biografie, Berlin 2014 – uscita a giugno, per l’85esimo compleanno del filosofo, N.d.T.] [2][Trad.it Storia e critica dell’opinione pubblica, Roma-Bari 2002, N.d.T.] [3][Trad.it Fatti e norme, Milano 1996, nuova edizione Roma-Bari 2013, N.d.T.] [4][Per Habermas anche le ragioni e le decisioni normative – lungi dall’essere preferenze soggettive e opzioni pregiudiziali – hanno un fondamentale valore cognitivo N.d.T.] [5][La conferenza americana di Habermas è stata tradotta, col titolo “Per una democrazia transnazionale”, su Micromega 3/2014, pp 12-27; sulle reazioni suscitate in America da questa conferenza cfr il servizio di Patrick Bahners, “Demokratie kommt ohne Völker aus”, Frankfurter Allgemeine Zeitung del maggio 2014 N.d.T.] [6][Sul grande inedito, cfr E Mendieta, Religion in Habermas’s Work, in C Calhoun, E Mendieta, J VanAntwerpen, a cura di, Habermas and Religion, Polity Press, Cambridge UK, pp 405-406 I prolegomeni cui si fa cenno sono i saggi raccolti nell’ultima grande opera di Habermas, Nachmetaphysisches Denken II, Suhrkamp, Berlin 2012 (in corso di traduzione presso Laterza), N.d.T.] [7][Allusione al titolo dell’ultimo libro di Habermas: Nella spirale della tecnocrazia, trad.it Roma-Bari 2014, N.d.T.] 10 Jacques Derrida : dalla filosofia del diritto al diritto alla filosofia Filosofo francese (El Biar, Algeri, 1930 - Parigi 2004) Di formazione fenomenologica, studioso di Nietzsche, Heidegger e Levinas, della psicoanalisi e dello strutturalismo, D è uno dei protagonisti del pensiero della ‘differenza’ La sua riflessione, sviluppando il problema heideggeriano della ‘differenza ontologica’, propone una critica radicale della metafisica e del postulato di una gerarchia fondante di significati (pensiero e verità, ragione e logos) Alla ‘de-costruzione’ del logocentrismo metafisico si accompagna la revisione del ‘fonocentrismo’, in particolare del tentativo dello strutturalismo di concepire il linguaggio sul modello della voce, riducendo la scrittura a sua funzione derivata La scrittura è oggetto della ‘grammatologia’, che non è scienza positiva, ma prosecuzione di quel più ampio progetto di ‘decostruzione’, che si pone il compito di accedere all’essere come differenza Con i suoi caratteri di ‘traccia’ e costitutiva differenzialità, il suo prestarsi a interpretazioni che estendono all’infinito il gioco della significazione, la scrittura esibisce esemplarmente la ‘differenza’ dell’essere e l’impossibilità di qualsiasi progetto di totalizzazione del sapere L’essere appare così non come una ‘presenza’ da cogliere nella sua pienezza, o come quell’orizzonte che avvolge i singoli enti, restando loro irriducibile (Heidegger), ma come un qualcosa di inafferrabile nella sua totalità, privo di qualsiasi forma di identità, perché già in sé stesso differente da sé Tra le opere: L’écriture et la différence (1967; trad it La scrittura e la differenza); Da la grammatologie (1967; trad it Della grammatologia); Marges de la philosophie (1972; trad it Margini della filosofia); Glas (1974); Otobiographies: l’enseignement de Nietzsche et la politique du nom propre (1984; trad it Otobiographies L’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio); Feu la cendre (1987; trad it Ciò che resta del fuoco); De l’esprit (1988; trad it Dello spirito); Du droit la philosophie (1990; trad it Il diritto alla filosofia dal punto di vista cosmopolitico); Donner le temps (1991; trad it Donare il tempo La moneta falsa); Passions: l’offrande oblique (1993); Le monolinguisme de l’autre (1996); Donner la mort (1999; trad it Donare la morte); Le concept du 11 septembre: dialogues New-York, octobre-décembre 2001 (con G Borradori e J Habermas, 2001); Au-delà des apparences: conversations avec Antoine Spire (2002); L’animal que donc je suis (2006; trad it L’animale che dunque sono) Du droit la philosophie (1990)23 Privilegio Giustificazione del titolo e note introduttive Titolo, capitolo, avvio del capitolo, ciò che è posto all'inizio, che è fondamentale, capitale: le domande sul titolo saranno sempre domande legate all'autorità, al privilegio e al diritto, al diritto al privilegio, alla gerarchia o all'egemonia Il titolo Du droit la philosophie (1), ad esempio, nelle sue pieghe un capitale fatto di una molteplicità di possibili sensi, lì pronti per essere fatti valere Si dovrebbe cominciare col decapitalizzarli Bisognerebbe impiegare o spiegare questi significati Ma questa forma, Du droit la philosophie, può qui restare ciò che è, nella sua sintesi, soltanto nella misura in cui essa rimane la forma propria di un titolo: da questo deriva la sua autorità, dunque il potere, il credito - il privilegio di cui gode - di non poter mai diventare una semplice frase ed essere spiegata Il suo privilegio, appunto, che è proprio della sua unicità come della posizione che occupa, è di poter tacere in modo da far credere - a giusto titolo, è da supporsi - di aver molto da dire Questo privilegio è sempre garantito da convenzioni, quelle che regolano l'uso dei titoli nella nostra società, che si tratti di titoli di opere o di titoli sociali Ma quando si parla di opere, la libera scelta, la virtù singolare di ciascun titolo è un privilegio, se così si p dire, legale e autorizzato Si riceve il titolo di dottore, ma, per diritto e per principio, si sceglie sovranamente il titolo di un discorso o di un proprio libro - titolo che lui solo porterà Non appena queste parole, Du droit la philosophie, si costruisce una frase, non appena la si espone, sicché l'equivoco comincia a sciogliersi, il potere del titolo comincia a dissolversi e la discussione inizio Ed anche la democrazia, senza dubbio, ed in certo modo la filosofia stessa Fin dove può andare questo movimento? La filosofia infatti, ed è questa la mia tesi, tiene al privilegio che espone Essa sarà ciò che cerca di proteggere, dichiarandolo, quest'ultimo o 23 http://lgxserver.uniba.it/lei/sfi/cf/cf1_derrida.htm primo privilegio che consiste nell'esporre il privilegio che le è proprio alla minaccia o alla presentazione, talvolta al rischio della presentazione Costruiamo delle frasi Se io ad esempio dico, ed è il primo senso del mio titolo, "come si passa dal diritto alla filosofia?", viene introdotta una certa problematica Si tratterà per esempio dei rapporti che permettono di passare dal pensiero, dalla disciplina o dalla pratica giuridica alla filosofia e alle questioni quid juris in cui da tanto tempo si dibatte Con maggiore precisione si tratterà del rapporto che va dalle strutture giuridiche che sostengono, implicitamente o esplicitamente, le istituzioni filosofiche (insegnamento o ricerca) alla filosofia stessa, se qualche cosa di simile esiste al di fuori, prima o al di di una istituzione In questo primo senso il titolo Du droit la philosophie annuncia un programma, una problematica e un contratto: si tratterà dei rapporti tra il diritto e la filosofia Ogni contratto implica del resto una questione di diritto e un titolo è sempre un contratto Che, nel caso unico della filosofia, questo contratto sia destinato a più di un paradosso, ebbene è proprio questo il nostro tema privilegiato, il privilegio come nostro tema In questo primo senso della frase, una sola delle cinque parole, la lettera à, si fa carico di tutta la determinazione semantica Il senso qui ruota sui differenti valori che può assumere una Infatti il rapporto del diritto la filosofia è concepito come quello di una articolazione in generale: tra due domini, due campi, due strutture o due dispositivi istituzionali Ma la stessa determinazione semantica di à, lo stesso valore di in rapporto a, un'altra frase può annunciare un altro programma - e un'altra problematica Si può a buon titolo osservare, infatti, che per analizzare questi problemi (diritto istituzionale e istituzioni filosofiche di ricerca e di insegnamento), bisogna parlare del diritto filosofi, bisogna parlare del diritto alla filosofia Bisogna richiamare le questioni del diritto, l'enorme continente della problematica giuridica di cui i filosofi in generale - e soprattutto in Francia - parlano troppo poco, anche se e senza dubbio perché il diritto parla tanto attraverso loro: bisogna parlare del diritto alla filosofia, bisogna parlare alla filosofia del diritto, far discorso alla filosofia e filosofi dell'immensa, vasta questione del diritto La "à" esprime ancora una articolazione, ma questa volta in un altro senso, quello del discorso rivolto a qualcuno, della parola detta verso qualcuno: bisogna parlare del diritto alla filosofia Ma tutto questo non esaurisce affatto il rapporto "du droit la philosophie" Il sintagma francese "du droit à" può significare altre cose e portare ad un altro accesso semantico Si dice "aver diritto a" per indicare l'accesso garantito per legge, il diritto di passaggio, il lasciar passare, lo Shibboleth, l'introduzione autorizzata Chi diritto alla filosofia oggi, nella nostra società? A quale filosofia? A quali condizioni? In quale spazio privato o pubblico? Quali luoghi di insegnamento, di ricerca, di pubblicazione, di lettura, di discussione? Attraverso quali istanze e quali filtri di mediazione? Avere "diritto alla filosofia" significa avere un accesso legittimo o legale a qualche cosa la cui singolarità, identità e generalità resta tanto problematica che la si chiama questo nome: la filosofia Chi dunque può pretendere legittimamente alla filosofia? A pensare, dire, discutere, apprendere, insegnare, esporre, presentare o rappresentare la filosofia? Questo secondo valore di "à" (il rapporto non più come articolazione, ma come l'indirizzarsi verso) mette in luce un'altra possibilità Ricapitolando, fin qui abbiamo tre frasi tipiche: Qual rapporto lega il diritto alla filosofia? Bisogna parlare del diritto alla filosofia - e dunque filosofi Chi diritto alla filosofia e a quali condizioni? Se ora circoscriviamo il sintagma "diritto alla filosofia", cosa che permette di fare della parola diritto tanto un avverbio quanto un nome, noi generiamo o riconosciamo lo spazio di un'altra frase e dunque di un altro campo di domande: è possibile andare diritto alla filosofia? di recarvisi immediatamente, direttamente, senza passare per nient'altro? Questa possibilità o questo potere garantirebbe di colpo l'immediatezza, cioè l'universalità e la naturalità dell'esercizio della filosofia E' questo che si vuol dire? E' davvero possible, come credono alcuni, far filosofia di colpo, direttamente (2), immediatamente, senza la mediazione della formazione, dell'insegnamento, delle istituzioni filosofiche, senza neppure la mediazione dell'altro o della lingua, di questa o quella lingua? Presa così, tra virgolette, l'espressione "diritto alla filosofia" in cui la parola "diritto" è presa come avverbio, ci dà la matrice di una quarta frase, di un quarto tipo di frase, ma anche l'avvio di un'altra problematica, che finisce l'arricchire e sovradeterminare le precedenti Alcuni sono dunque impazienti di accedere-direttamente-alle-cose-stesse-e-senza-attendere-tenderedirettamente-verso-il-vero-contenuto-dei-problemi-urgenti-e-gravi-che-si-pongono-a-tutti-ecc Queste persone non mancheranno certo di giudicare scherzosa, affettata o formale, perfino inutile, una analisi che dispieghi questo ventaglio di significati e di possibili frasi: "Perché questa lentezza e questo compiacimento? Perché queste tappe linguistiche? Perché non si parla finalmente in modo diretto delle vere questioni? Perché non andar dritti alle cose stesse?" Ben inteso, si può condividere questa impazienza e pensare tuttavia - ed è il mio caso - che non soltanto non ci si guadagna niente a cedere immediamente ad essa, ma che questa illusione una storia, degli interessi, una sorta di struttura ipocritica che è sempre meglio cercare di riconoscere dandosi il tempo per il lavorio e l'analisi Ne va infatti di un certo diritto alla filosofia L'analisi dei valori potenziali che dormono o che giocano un ruolo al fondo dell'espressione francese "diritto alla filosofia" deve essere un esercizio di vigilanza e deve "essere in gioco" soltanto nella misura in cui il "gioco" è qui dei più seri Per almeno due ragioni L'una riguarda la questione del titolo, l'altra la questione della lingua "Diritto di ", "diritto a ": la presupposizione istituzionale Avere il diritto di, il diritto a, significa essere autorizzati, giustificati a fare, a dire, a fare dicendo questo o quello Un titolo autorizza, legittima, dà valore e unifica Questo vale per qualche cosa, che perciò non è mai una semplice cosa, o per qualcuno che diviene allora "qualcuno" Per qualcosa che non è mai una cosa: il titolo di un discorso o di un'opera, di un discorso in quanto opera, di una istituzione che è allo stesso tempo in qualche modo discorso e opera perché una storia che la sottrae all'ordine detto naturale e dipende da un atto del linguaggio Il titolo è il nome dell'opera, in qualsiasi senso la si intenda (opera d'arte, opera politica, istituzione) (3), unifica l'opera dandole un nome e fa che, così identificata, essa faccia valere il suo diritto all'esistenza e al riconoscimento: legalizzazione o legittimazione Ciò che vale per l'opera (questa "cosa" che non è affatto una e non appartiene alla natura nel senso moderno del termine) vale anche per qualcuno, per il titolo di qualcuno, a dire, a fare, a dire facendo questo o quello, a fare delle "cose" delle parole Ma il titolo dato (o rifiutato) a qualcuno suppone sempre, ed è un circolo, il titolo di un'opera, cioè una istituzione, che sola può essere autorizzata a farlo Solo una istituzione (titolo del corpo autorizzato a conferire i titoli) può dare a qualcuno il suo titolo Questa istituzione può senza dubbio incarnarsi in persone, persino in una sola persona, ma questa stessa incarnazione deriva essa stessa da una qualche istituzione o costituzione Che il titolo sia dato (o rifiutato) a qualcuno da parte di un corpo istituzionale significa che la custodia dei titoli, come la loro garanzia, spetta a chi, in quanto istituzione, detiene già il titolo L'origine del potere di dare titoli o di legittimarli non può dunque mai mostrarsi fenomenicamente come tale La legge della sua struttura - o la struttura della sua legge - implica che essa scompaia Questo non è soltanto un circolo Quanto meno il pensiero di un tale "circolo" obbliga a riformulare le immense questioni già "classificate" sotto i titoli classici di "rimozione", di "repressione" o di "sacrificio" I testi qui riuniti tentano, ciascuno alla sua maniera, di farsi carico di questa paradossale topica della presupposizione istituzionale (4) Una tale topica definisce così la struttura dell'istituzione come archivio (niente di meno di ciò che gli storici, insomma, chiamano storia): una istituzione custodisce la memoria, certo, è fatta per questo Dei nomi e dei titoli ne fa dei monumenti, di quelli che dato, di quelli da cui ricevuto il suo Ma, nel difendersi, può sempre capitare qualcos'altro, e la struttura del suo spazio interno ne viene modificata Una istituzione può innanzitutto dimenticare i suoi stessi eletti: si sa che essa ne perde talvolta il nome in profondità sempre più inaccessibili E questa selettività richiama innanzitutto, senza dubbio, la finitezza di una memoria istituzionale Tuttavia il paradosso è altrove, benché esso sia anche l'effetto di una finitezza essenziale: ciò che si chiama una istituzione deve talvolta custodire la memoria di ciò che essa esclude e tenta selettivamente di consegnare all'obblio La superficie del suo archivio è allora caratterizzata da ciò che essa tiene al di fuori, che espelle o non tollera più Essa assume la figura inversa del rifiuto, si lascia identificare attraverso ciò che la minaccia o che essa sente come una minaccia Per identificarsi, per essere ciò che è, per delimitare se stessa e riconoscersi nel suo nome, deve - per così dire - portare il suo avversario nel suo seno Deve assumerne i tratti, persino sopportarne il nome come un marchio negativo E capita che l'escluso, quello i cui tratti sono pesantemente scolpiti nel seno dell'archivio, iscritti nella superficie istituzionale, finisca col divenire a sua volta colui che porta la memoria del corpo istituzionale Questo vale per la violenza fondatrice degli Stati, per le nazioni e i popoli che essa non manca mai di opprimere o di distruggere - e questo non mai luogo una volta per tutte, ma deve necessariamente avvenire continuamente o ripetersi secondo processi e ritmi diversi Ma questo vale anche, su una scala in apparenza più modesta, per le istituzioni accademiche, l'istituzione filosofica in particolare Di più, l'esempio accademico richiama strutturalmente l'esempio politicostatale Per restare al di fuori della Francia e limitarci al passato, diciamo che l'Università di Francoforte non è soltanto, ma è anche l'istituzione che rifiutato di conferire a Walter Benjamin il titolo di dottore Essa certo altri titoli per essere richiamata alla memoria, all'attenzione o all'ammirazione, ma se ci si ricorda di essa - e di alcune esclusioni per le quali è precisamente identificata - è anche grazie a una nota nelle opere complete di Benjamin Saremmo in molti a conoscere il nome di Hans Cornelius se, alla fine del volume, una nota dell'editore delle opere complete di Benjamin non fosse dedicata a questo avvenimento, esemplare sotto diversi aspetti, e cioè il rifiuto dell'”Origine del dramma barocco tedesco” come tesi di dottorato (5)? Come ogni pubblicazione, un insegnamento, per esempio un seminario sulla questione del diritto alla filosofia può, oserei dire dovrebbe sempre, problematizzare, cioè mettere in luce, per farne oggetto di una ricerca, i propri limiti e caratteri: a che titolo e in base a quale diritto noi siamo qui riuniti per fare esperienza del disaccordo o della discordia o per costatare che le premesse di una discussione non ci sono affatto o che non possiamo affatto intenderci sul senso e i termini di una simile costatazione? A che titolo e in base a quale diritto siamo qui, voi e io, io che prendo e tengo per il momento la parola senza averne apparentemente chiesto l'autorizzazione? Almeno in una certa misura si tratta di una apparenza: di fatto si sa bene che un processo lungo e complicato di autorizzazione (implicitamente richiesta a numerose istanze - accademiche, editoriali, dei media, e così via - più o meno d'accordo su questo o su quello) avuto luogo in precedenza, certo in modo assai poco naturale Questo spazio (seminario, prefazione o libro), il luogo in cui questo atto luogo, niente ci assicura che appartenga alla filosofia e che abbia titolo a portarne il titolo Come appunto annuncia il suo titolo, la questione trattata può portare al di o al di qua del "filosofico" - di cui per il momento, e in linea di principio, non dobbiamo dare il senso Infatti, la domanda "che cosa è filosofico?" appartiene alla filosofia? Si e no: risposta formalmente contraddittoria, ma per nulla vuota o evasiva Appartenere alla filosofia non significa certamente fare parte di un tutto (una proprietà, uno Stato o una nazione, una molteplicità, una serie o un insieme di obiettivi, il campo di un sapere, il corpo di una istituzione, o anche di totalità aperte) Dalla necessità o dalla possibilità di questo "sì e no", dell'impreciso limite che l'attraversa o l'istituisce, del pensiero di ciò che è filosofico che sembra qui essere richiamato, da tutto questo dipendono oggi la posta in gioco e le responsabilità più gravi Quando si pone al soggetto di una scienza o di un'arte, la domanda "che cos'è ?" appartiene sempre, secondo i filosofi, alla filosofia Le appartiene a pieno diritto C'è qui il diritto della filosofia Poiché ritiene di essere la sola a detenerlo, allora è un privilegio La filosofia sarebbe questo privilegio Essa non lo riceverebbe, sarebbe piuttosto questo potere ad essere in accordo essa Vi si ritrova il più antico tema della filosofia: la domanda "che cos'è la fisica, la sociologia, l'antropologia, la letteratura o la musica?" sarebbe di natura filosofica Ma si può dire altrettanto della domanda: "che cosa è filosofico?" E' la più e la meno filosofica di tutte, bisogna tener conto di questo Questa domanda si distribuisce presso tutte le decisioni istituzionali: "Chi è filosofo? Che cos'è un filosofo? Che cosa diritto a ritenersi filosofico? Da che cosa si riconosce un enunciato filosofico, in generale e oggi? Da quale segno (c'è un segno?) si riconosce che un pensiero, una frase, una esperienza, una operazione, per esempio una didattica, è filosofica? Che vuol dire questa parola? Può essere intesa in riferimento a se stessa e luoghi stessi a partire da cui queste domande si formano e si legittimano?" Senza dubbio queste domande si confondono la filosofia stessa Ma per questa incertezza essenziale dell'identità filosofica, forse non sono già più filosofiche Forse restano al di qua della filosofia che esse interrogano, a meno che esse non portino al di di una filosofia che non sarebbe più la loro ultima destinazione Una domanda posta alla filosofia sulla sua identità può rispondere almeno a due figure dominanti Altri approcci sono senza dubbio possibili, ed è per identificarli preliminarmente che stiamo adesso lavorando Ma intanto le due figure che possiamo osservare nella tradizione sembrano opporsi come essenza e funzione Da un lato, quello dell'essenza (che è anche quello della storia, dell'origine, dell'evento, del senso e dell'etymon) si tenta di pensare la filosofia come tale, come ciò che essa è, ciò che essa sarà stata, ciò che essa avrà progettato di essere sin dalla sua origine - e precisamente a partire da un evento che luogo, nell'esperienza di una lingua, a partire dalla questione dell'essere o della verità dell'essere C'è qui, in modo del tutto schematico, la figura heideggeriana della "distruzione" (6) Dall'altra parte, quella della funzione, e in uno stile all'apparenza più nominalista, si comincia col denunciare questo richiamo alle origini: esso non ci direbbe nulla sulla verità pragmatica della filosofia, cioè su ciò che essa fa o su ciò che si fa sotto il suo nome, sulle conseguenze che ne derivano, sulle scelte che essa compie o che qualcuno compie nell'atto del discorso, della discussione, delle valutazioni, nelle pratiche sociali, politiche e istituzionali Bisogna piuttosto innanzitutto riafferrare la differenza piuttosto che il filo genealogico che la legherebbe a una qualche dimenticata origine Questo pragmatismo funzionalista è il modello quanto meno implicito per le numerose interrogazioni moderne riguardo alla filosofia, siano essere condotte da filosofi, da sociologhi o da storici Al di di tutte le differenze e di tutte le opposizioni, in realtà trascurabili, queste due figure della questione riguardo alla filosofia (Che cosa è? Che cosa fa? Che cosa si fa di essa o essa?) si presuppongono sempre l'un l'altra, per cominciare o per finire Il pragmatismo nominalista deve ben darsi prima una regola per impegnarsi nelle proprie operazioni e per riconoscere i propri oggetti, ed è sempre a partire da un concetto della filosofia, esso stesso legato alla presupposizione di un senso o di una essenza, che si pensa l'essere-filosofico della filosofia Il percorso che si richiama alle origini (e questo vale anche per Heidegger) deve presupporre a sua volta un evento, una concatenazione di eventi, una storia nella quale un atto filosofico non si distingue affatto da un "atto linguistico" reso possibile da una condizione arci-convenzionale o quasi contrattuale all'interno di una lingua data Esso deve dunque presupporre questo momento in quanto istituente una "funzione" sociale e istituzionale, anche se i nomi più appropriati a queste cose vengono dati dopo una prova di "distruzione" Se dovessimo elaborare o adattare un altro tipo di posizione problematica, sempre che questo sia possibile, bisognerebbe cominciare il comprendere e formalizzare la necessità, se non l'ineluttabilità, di questo presupposto comune E' proprio su questa via che ci troviamo Tutti i dibattiti richiamati in questo libro ce lo ricordano, che si tratti delle parole inaugurali del Greph, dell'Introduzione agli Stati Generali della filosofia, della fondazione del Collegio Internazionale di Filosofia o del rapporto della Commissione di Filosofia e di Epistemologia Ogni volta io mi sono associato vigore e senza equivoci alle lotte tendenti a difendere e a sviluppare ciò che spesso si chiama la "specificità" della disciplina filosofica oggi minacciata: contro la sua dispersione, o persino dissoluzione nell'insegnamento delle scienze sociali o umane; talvolta, rischio più tradizionale in Francia, nell'insegnamento delle lingue e delle letterature Ma nello stesso tempo a coloro che vogliono fare un uso soltanto difensivo e conservatore, talvolta strettamente dogmatico o addirittura corporativo di questo argomento, bisogna ben ricordare che questa "specificità" deve restare la più paradossale La sua esperienza è così quella di una aporia attraverso la quale è sempre necessario reinventare un cammino senza certezze Questa non è soltanto la specificità di una disciplina tra le altre (anche se conviene ricordare che questa disciplina è così) il suo campo di oggetti e il suo insieme di regole trasmissibili Se essa deve restare aperta a tutte le interdisciplinarietà senza disperdersi, essa non si presta come una disciplina tra le altre alla tranquilla e regolare transazione tra i saperi alle frontiere stabilite tra i territori assegnati alle diverse discipline Ciò che si è chiamato "decostruzione" è allora l'esposizione di questa identità istituzionale della disciplina filosofica: ciò che essa di irriducibile deve essere esposto come tale, cioè messo in luce, protetto, rivendicato, ma questo deve avvenire mentre l'identità di ciò che le è proprio si allontana da se stessa per riappropriarsi di sé - innanzitutto sin dalla più piccola delle domande che riguardano la sua natura La filosofia, l'identità filosofica, è così un nome per un'esperienza che, nell'identificazione in generale, comincia l'es-porsi: in altri termini, l'andar via dalla propria terra Aver luogo dove essa non luogo, dove il luogo non è né naturale né originario né dato Le questioni del titolo e del diritto hanno sempre una dimensione topologica Nessuna istituzione fa a meno di un luogo simbolico di legittimazione, anche se l'assegnazione può essere sovradeterminata, all'incrocio di dati empirici e simbolici, fisico-geografici e ideali, all'interno di uno spazio omogeneo o eterogeneo Un seminario può aver luogo (fisicamente, ma non senza trarne un beneficio simbolico che diventa la posta in gioco delle transazioni e dei contratti) in una istituzione determinata, tenuto da qualcuno che non vi appartiene (Jacques Lacan all'Ecole Normale Supérieure per parecchi anni, ad esempio), o da qualcuno che, "ancien élève" dell'Ens, tiene un insegnamento in nome di quell'altra istituzione pubblica che è l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales o perfino di una istituzione che non possiede alcun luogo fisico proprio e che, come il Collège International de Philosophie, fondato nel 1983, è a tutti gli effetti una associazione privata (regolata dalla legge del 1901), autonomo nel suo funzionamento e nei suoi orientamenti benché nel suo Consiglio di amministrazione siedano, statutariamente, i rappresentanti di quattro ministeri! La carta di questi "luoghi" richiede una descrizione sottile e le interferenze dei percorsi favoriscono una turbolenza propizia alla riflessione sulla storicità delle istituzioni, soprattutto delle istituzioni filosofiche Se queste sono storicamente definite, questo significa che né la loro origine né la loro solidità sono naturali; e soprattutto che i processi per cui si stabilizzano sono sempre relativi, minacciati, essenzialmente precari Là dove esse si mostrano ferme, stabili, durevoli o resistenti, ebbene questo tradisce innanzitutto la fragilità della fondazione E' sullo sfondo di questa "decostruttibilità" teorica e pratica, è proprio contro questa che l'istituzione si istituisce E' questo sfondo che la sua elevazione tradisce: essa lo segnala, come fa un sintomo, e lo rivela dunque, ma allo stesso tempo lo nasconde L’orizzonte e la fondazione, due proiezioni filosofiche (l’esempio del Collège International de Philosophie) (…) NOTE Il testo di Jacques Derrida è posto come prefazione al volume Du droit la philosophie (Edition Galilée, Paris 1990, pp 9-23), che raccoglie numerosi saggi e interventi su tematiche legate alla identità della filosofia e al suo insegnamento (Nota del traduttore) Trad it parziale di M Trombino Per l’originale in lingua francese cfr http://jacquesderrida.com.ar/frances/droit_philosophie.pdf Cfr anche J Derrida, Del diritto alla filosofia, a c di F Garritano, Catanzaro 1997; J Derrida, Il diritto alla filosofia dal punto di vista cosmopolitico, il Melangolo 2003 (1) Du droit la philosophie è stato all'inizio il titolo di un seminario che ho tenuto a partire dal gennaio 1984 in una situazione istituzionale assai singolare All'inizio dell'anno accademico ero ancora, per il ventesimo anno, "maitre-assistant" all'Ecole Normal Supérieure - e questo seminario si tenne presso l'Ecole sotto i suoi auspici ma anche sotto quelli del Collège Internationa de Philosophie che io, insieme altri, avevo appena fondato il 10 ottobre 1983 e di cui, nello stesso giorno, ero stato eletto direttore Sapevo già che successivamente avrei lasciato l'Ecole Normal Supérieure per l'Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales dove ero stato nominato "directeur d'études" (nella sezione Le istituzioni filosofiche) Non ho ancora potuto preparare per la pubblicazione i materiali predisposti per quel seminario Nel corso di questa prefazione ne ricorderò soltanto i principali argomenti In questa raccolta di testi ho conservato il titolo del seminario dell'84 e credo sia quindi opportuno riprodurre qui l'annuncio descrittivo del seminario che allora venne diffuso a cura del College International de Philosophie: "Du droit la philosophie (destiner, enseigner, instituer) La domanda, più ampia, circa la destinazione incrocerà quella sulla fondazione o sull'istituzione, in particolare sull'istituzione filosofica (scuola, disciplina, professione, e così via) Una simile istituzione è possibile? Per chi? Da parte di chi? Come? Chi decide? Chi legittima? Chi impone le proprie valutazioni? All'interno di quali condizioni storiche, sociali, politiche, tecniche? Al di di una alternativa tra problematiche "interne" o "esterne", sarà posta in questione la costituzione dei limiti tra l'interno e l'esterno del testo detto "filosofico", i suoi modi di legittimazione e di istituzione Saranno richiamati alcuni elementi della sociologia della conoscenza o della cultura, della storia della scienza e delle istituzioni pedagogiche, della politologia della ricerca: ma la di della epistemologia di questi saperi, si comincerà col collocare la loro professionalizzazione e la loro trasformazione in discipline, la genealogia dei loro concetti operativi (per esempio "obiettivazione" "legittimazione", "potere simbolico", ecc.), la storia della loro assiomatica e gli effetti della loro appartenenza istituzionale In questo spazio davvero ampio, sotto il titolo Du droit la philosophie sarà tracciato lo schizzo di due percorsi divergenti: Studio del discorso giuridico che, senza occupare il primo posto sulla scena, fonda le istituzioni filosofiche Quali sono i suoi rapporti il campo storico, sociale e politico? le strutture dello "Stato moderno"? Studio delle condizioni di accesso alla filosofia, al discorso, all'insegnamento, alla ricerca, alla pubblicaizone, alla "legittimità" filosofica Chi diritto alla filosofia? Chi ne detiene il potere o il privilegio? Che cosa limita di fatto l'universalità dichiarata della filosofia? Come si decide che un pensiero o un enunciato sono classificabili come "filosofici"? Anche se questa rete di domande non si distingue da quella che chiamiamo la filosofia stessa (se qualcosa di simile esiste e la pretesa dell'unità), si possono tuttavia studiare in contesti determinati le modalità di determinazione del "filosofico", le divisioni che questo implica, i modi di accesso riservati all'esercizio della filosofia: le strutture d'insegnamento e di ricerca in cui la filosofia è dispensata come una disciplina, principale o complementare, gli ambienti extra-scolastici o extra-universitari, i "supporti" orali, quelli a stampa e così via La questione del "supporto" (parola, libro, rivista, giornale, radio, televisione, cinema) non è puramente tecnica o formale Riguarda il contenuto, la costituzione e i modi di formazione o di ricezione dei temi, degli enunciati, del corpus filosofico Sono sempre gli stessi, dal momento che essi non sono più dati, dominati e accumulati, sotto forma di archivio librario, all'interno di istituzioni specializzate, sotto il controllo di persone o di comunità di "guardiani" autorizzati e, si suppone, competenti? Si partirà dai numerosi segni di mutamento osservabili almeno a partire dal XIX secolo, in modo più accelerato negli ultimi vent'anni Filo conduttore per questo approccio preliminare: l'esempio del Collège Internazionale de Philosophie E' una nuova "istituzione filosofica"? Sono possibili molteplici interpretazioni sulla sua origine, sulle sue condizioni di possibilità, di destinazione" (2) Rettitudine, rettilinearità, "diritta via": sappiamo bene quale ruolo questi valori - del resto collegati quelli di norma o di regola - hanno giocato nell'assiomatica di numerose metodologie, in particolare in quella di Cartesio (Si veda a questo proposito J Derrida, La langue et le discours de la méthode, in Recherches sur la philosophie et le langage, n 3°, La philosophie dans sa langue, Università di Grenoble 2, 1983) (3) Poiché ho più volte trattato di questa legge del titolo, in particolare nello spazio delle opere letterarie, mi permetto di rinviare a Devant la loi, 1982, in La faculté de juger, Minuit 1985, nonché a Survivre, 1977, Titre préciser e La loi du genre, 1979, in Parages, Galilée 1986 (4) In modo più diretto in Mochlos - ou Le conflit des facultés, p 397 e in Les pupilles de l'Université Le principe de raison et l'Idée de l'Université, (p 461) La stessa struttura era stata anlizzata, altre preoccupazioni, in Otobiographies L'enseignement de Nietzsche et la politique du nom propre (chap "Déclarations d'indépendance"), Galilée 1984 (5) Riguardo alla riunione del Consiglio di Facoltà del 13 luglio 1925, nel registro delle deliberazioni, al punto 6, è scritta la seguente menzione: "Doctorat d'Etat" di Benjamin La Facoltà decide, avendo visto il rapporto del prof Cornelius, di pregare il Dr Benjamin di ritirare la sua tesi di "Doctorat d'Etat" La facoltà decide, inoltre, di non ammettere la richiesta del Dr Benjamin riguardo al titolo di "Dottore" nel caso egli non tenga conto di questo avvertimento (W Benjamin, Ecrits autobiographiques, Paris 1990, p 377) (6) Tratterò questo problema in modo più analitico in L'oreille de Heidegger (Philopolémologie, Geschlecht IV) Cfr Forza di legge Il «fondamento mistico dell'autorità», Torino, Bollati Boringhieri, 2003 (H Kelsen 1926: Chi alza quel velo senza chiudere gli occhi si vede fissare dallo sguardo sbarrato della testa di Gorgone del potere.) ... giuridico» La definizione del diritto «Il diritto è l’insieme delle condizioni, per mezzo delle quali l’arbitrio dell’uno può accordarsi l’arbitrio di un altro secondo una legge universale della... approfondimenti: N Bobbio, Diritto e stato nel pensiero di Emanuele Kant, Torino, Giappichelli 1969 Rudolf von Jhering: filosofia della storia del diritto Il nostro compito8 «La massa complessa del diritto. .. potere dello Stato 10 Il diritto come condizionato dalla coercizione 11 Il diritto: l'elemento normativo 12 Lo scopo del diritto: le condizioni per l'esistenza della società 13 La pressione giuridica