Evgeny Morozov CONTRO STEVE JOBS La filosofia dell’uomo di marketing più abile del XXI secolo Traduzione di Massimo Durante © 2012 Codice edizioni Presentazione Sono dieci anni che la Apple colleziona un successo dopo l’altro. La società di Cupertino ha portato nelle case di milioni di persone non solo una tecnologia, ma anche uno stile di vita. Chi compra un MacBook, un iPad, un iPhone non sta solo comprando un computer, un tablet o uno smartphone; sta dichiarando un’appartenenza. Sta dicendo qualcosa di sé. Ma cosa c’è dietro questo successo? Cosa è riuscito a fare Steve Jobs che non sono riusciti a fare gli altri imprenditori? Evgeny Morozov, l’enfant terrible del web, ha affilato la sua penna, ha preso un bel respiro, e si è buttato a testa bassa contro i ritratti agiografici dedicati a Jobs che in questi ultimi mesi hanno popolato le librerie e internet. Un’analisi caustica e illuminante sul “miracolo Apple”. La domanda a questo punto sorge spontanea: Steve Jobs è stato un filosofo che ha cercato di cambiare il mondo, oppure è stato un genio del marketing, capace di trasformare una normale azienda produttrice di computer nell’oggetto di una vera e propria venerazione, mentre era indaffarato a regolare i conti con il passato e a nutrire il suo gigantesco ego? Evgeny Morozov è un blogger e ricercatore universitario: lavora come visiting scholar a Stanford e Schwartz fellow alla New America Foundation. Scrive per i principali quotidiani del mondo: “The New York Times”, “The Economist”, “The Wall Street Journal”, “Financial Times”, “The New Republic” e altri. In Italia collabora con il “Corriere della Sera”. Ha pubblicato The Net Delusion, tradotto da Codice edizioni nel 2011 con il titolo L’ingenuità della rete. Il suo sito è www.evgenymorozov.com. 1 Nel 2010 “Der Spiegel” ha pubblicato un profilo di Steve Jobs, a quell’epoca ancora al timone di Apple, che trasuda entusiasmo da ogni riga. In Germania (ma non solo) i prodotti creati a Cupertino sono oggetto di un vero e proprio culto, i cui officianti sono soprattutto i giovani bohèmiens. L’amore di questo paese per la “mela morsicata” è d’altronde ben rappresentato dal sottotitolo che il Museo di Arti e Mestieri di Amburgo ha voluto dare a Stylelectrical, la mostra che è anche una consacrazione ufficiale dei prodotti Apple: L’elettrodesign che ha fatto storia. Jobs e Jonathan Ive, lo straordinario responsabile del design Apple, hanno sempre riconosciuto il loro debito nei confronti della Braun, la (ex) potente società tedesca produttrice di radio, registratori e macchine per il caffè. La somiglianza tra la produzione della Braun degli anni sessanta e quella della Apple è a dir poco singolare: non è difficile trovare online video che le mettono a confronto. Insomma, pare che ci sia voluto uno studente siriano-americano con la passione della calligrafia, che ha abbandonato il college e si è auto-proclamato devoto dell’India, del Giappone e del buddhismo, per far sì che il mondo potesse apprezzare le virtù del solido e minimale design tedesco. (Dal canto suo la Braun non è stata altrettanto fortunata: nel 1967 è stata acquisita dal gruppo Gillette, e ha finito per fabbricare spazzolini da denti.) Il pezzo pubblicato su “Der Spiegel” non ci ha fatto capire molto della personalità di Jobs, ma è rilevante per due motivi: 1) il titolo (Il filosofo del XXI secolo); 2) le scarse argomentazioni portate a sostegno di tale sorprendente affermazione. Evidentemente la natura filosofica del Jobs-pensiero non aveva bisogno di alcuna spiegazione. È difficile infatti ricordare un altro amministratore delegato altrettanto famoso che abbia ricevuto un simile riconoscimento, per di più da una rivista tedesca che in passato ha ospitato nelle sue pagine nientemeno che Martin Heidegger. La domanda a questo punto sorge spontanea: Steve Jobs è stato un filosofo che ha cercato di cambiare il mondo (o che ha anche solo cercato di interpretarlo), oppure è stato un genio del marketing, capace di trasformare una normale azienda produttrice di computer nell’oggetto di una vera e propria venerazione, mentre era indaffarato a regolare i conti con il passato e a nutrire il suo gigantesco ego? Nell’immaginario collettivo Jobs rientra a pieno titolo nella cerchia degli imprenditori-innovatori, una specie di reincarnazione di Henry Ford e Thomas Edison. Non stupisce quindi che vi siano poche tracce del Jobs filosofo nella biografia scritta da Walter Isaacson: un libro fondamentale, che a dispetto dei suoi limiti è candidato a trasmettere l’immagine di Jobs alle generazioni future. Mentre ci si avvicina alla fine di questo imponente libro, non si può però fare a meno di domandarsi di che cosa abbiano discusso Isaacson e Jobs nelle loro passeggiate per le strade di Palo Alto. Abbondano i piccoli aneddoti, va bene; ma non c’erano grandi temi da affrontare? Cosa ne è stato dello Steve Jobs pensatore? Il fatto che tutti i libri dedicati di recente a Steve Jobs dicano così poco del suo profilo intellettuale è di per sé stupefacente, dato che l’osservazione e l’analisi della Apple sono ormai diventate un business: esiste infatti una domanda inesauribile, prontamente soddisfatta, di libri e di articoli sull’azienda di Cupertino. I blog che seguono quello che succede in casa Apple traboccano di voci e notizie più o meno incontrollate. Dal momento della sua fondazione, ma soprattutto negli ultimi dieci anni, durante i quali la glorificazione ha raggiunto il suo culmine, la Apple è stata oggetto di una costante attenzione che in genere viene riservata ai presidenti. Attenzione che a Jobs non dispiaceva affatto, a patto però che rispondesse alle sue aspettative. Per questo ha fatto di tutto per gestire la copertura mediatica sulla Apple, come chiamare giornalisti che si occupano di tecnologia per persuaderli a scrivere ciò che voleva che il mondo venisse a sapere. Non soltanto Jobs ha costruito una sorta di culto intorno alla propria società, ma ha fatto anche in modo di disporre di propri canali di stampa: per esempio i generosi finanziamenti di Cupertino hanno permesso a “Macworld”, la prima rivista consacrata al mondo Apple, di esistere, e in definitiva di creare un nuovo genere. Come i suoi biografi ci hanno ripetuto fino allo sfinimento, Jobs non era una persona particolarmente gentile, e nemmeno ci teneva a esserlo. Il più diplomatico dei sostenitori di Apple avrebbe potuto dire che Steve Jobs, convinto vegetariano e agguerrito buddhista, conduceva una vita fatta di paradossi. Senza tanta diplomazia potremmo invece dire che era un opportunista senza scrupoli: un brillante ma instancabile camaleonte. Per Jobs la coerenza era soltanto lo spauracchio delle piccole menti – vedeva piccole menti ovunque volgesse lo sguardo… – e faceva del suo meglio per tradurre nella sua vita la massima di Ralph Waldo Emerson, “una stupida coerenza è l’ossessione delle piccole menti”. Fece issare una bandiera pirata in cima al centro sviluppo Macintosh al campus Apple, nel 1983, dicendo che «è meglio essere un pirata che arruolarsi in marina», per condannare poi, qualche decennio più tardi, la pirateria di internet in quanto furto. Si lamentò del fatto che Obama non avesse voluto ricevere i suoi preziosi consigli strategici, per fare invece affidamento solo su Thomas Friedman, il pensatore a cui chiunque sia a corto di argomenti ricorre in extremis (Jobs incluso). Ha cantato le lodi della calligrafia, per contribuire poi a distruggere la penna come strumento di scrittura. Ha ricordato più volte le virtù della contemplazione e della meditazione, facendo allo stesso tempo tutto il possibile per ridurre i tempi necessari ad avviare un computer (sorge a questo punto spontanea un’altra domanda: ma se sei un buddhista, che fretta hai?). Ha tentato di liberare gli utenti dalla “schiavitù” delle grandi compagnie come l’Ibm, per poi stringere accordi con loro e dichiarare di voler fare affari soltanto con la corporate America. Da vero amante della semplicità con tendenze ascetiche, una volta chiese al consiglio di amministrazione di fornirgli un jet personale per portare la propria famiglia alle Hawaii. Disse anche di non aver fatto tutto questo per i soldi, e di aver chiesto uno stipendio di appena un dollaro, ma in compenso finì nei guai con la Securities and Exchange Commission, la Consob americana, per avere retrodatato le proprie stock options, con una manovra che gli fruttò svariati milioni di dollari. Cercò di convincere la propria fidanzata quanto fosse importante evitare l’attaccamento agli oggetti materiali, per poi mettere in piedi una società che sarebbe diventata il simbolo per eccellenza del feticismo digitale. Pur avendo preso in considerazione l’ipotesi di andare in un monastero in Giappone, confessò che se non fosse stato per i computer sarebbe andato a Parigi (città non propriamente monastica) a fare il poeta. È vera la storia del monastero? Ormai conosciamo molto bene i numerosi aneddoti che parlano della ricerca della spiritualità di Jobs, e a prima vista la risposta a questa domanda potrebbe essere affermativa. La storia della sua giovinezza – il pellegrinaggio in India, il tempo trascorso in una comune agricola, la fascinazione per la terapia dell’urlo primario di Arthur Janov – suggerisce che il suo interesse per la spiritualità fosse qualcosa di più di una moda passeggera. Ma, appunto, quanto è durato esattamente? Il Jobs più maturo, il capitano d’industria, era preso dalla spiritualità tanto quanto lo era stato il giovane Jobs? Anche da adulto Jobs ha avuto un buon motivo per offrire di sé l’immagine della persona profondamente spirituale. In America il buddhismo è più di una religione: è un brand che vende molto, e non soltanto in California, a giudicare dall’interminabile serie di libri che contengono nel loro titolo “Lo zen e l’arte di…” e che abbracciano attività così diverse come la cura della motocicletta, la scrittura, la corsa, il poker, i vampiri. La Apple sarebbe stata stupida a non approfittare della mitologia legata ai primi anni del suo fondatore, a prescindere da ciò che egli da adulto davvero pensasse del buddhismo e della spiritualità. Già nel 1985 Jobs aveva ammesso con un certo candore che il suo interesse in materia di spiritualità stava scemando. Alla domanda di un giornalista del “Newsweek” che gli chiese se avesse davvero accarezzato l’idea di entrare in un monastero giapponese, diede una risposta che avrebbe potuto essere di Ronald Reagan: «Sono contento di non averlo fatto. So che questo suona molto, molto scontato, ma sento di essere profondamente americano. Il destino del mondo oggi è nelle mani degli Stati Uniti. Voglio vivere qui la mia vita, dove sono nato, e dare per quanto posso il mio contributo». In un’altra intervista, concessa all’“Esquire”, ha affermato di non aver imboccato la strada del monastero in parte perché vedeva sempre meno differenze tra vivere in oriente e lavorare alla Apple: «Alla fine è la stessa cosa». Piuttosto discutibile. La competizione spietata nell’industria del computer, le pugnalate alle spalle nei consigli di amministrazione, le false promesse della pubblicità: sono tutte cose che la Apple conosce bene, e non sembrano molto “monastiche”. Per quanto Jobs abbia cercato di dare un significato alla sua scelta di “restare in America”, non ci sarebbe da stupirsi se la patina di spiritualità orientale fosse qualcosa che il consumato e abile venditore ha conservato per ragioni squisitamente pragmatiche. L’impegno di Jobs in politica è sempre stato piuttosto marginale: così marginale che, ad eccezione del suo tentativo di spiegare a Barack Obama come rimettere a posto gli Stati Uniti, nel libro di Isaacson la politica fa un’apparizione molto fugace. Jobs non ha mai avuto alcun timore reverenziale nei confronti dei politici: c’è chi l’ha visto tentare di vendere un computer al re di Spagna durante un party, o chiedere a Bill Clinton di aiutarlo a convincere Tom Hanks a fare qualcosa insieme (Clinton ha declinato la richiesta). Quando fu cacciato dalla Apple, Jobs cullò l’idea di candidarsi, ma molto probabilmente fu scoraggiato dall’idea di tutti i compromessi che la politica richiede. «Bisogna davvero passare attraverso tutta quella merda per diventare governatore?» si dice abbia chiesto al proprio consulente. In un’intervista al “Business Week”, nel 1984 ammise di non avere mire politiche: «Non sono interessato ai partiti, ma alla gente». Non politicizzato non è però l’espressione corretta per descrivere Steve Jobs. C’è un curioso passaggio in una sua intervista rilasciata nel 1996 a “Wired” in cui osserva: Quando sei giovane guardi la televisione e pensi: c’è una cospirazione, le reti cospirano tra loro per renderci più stupidi. Appena cresci un po’ capisci che non è vero. I network non fanno altro che dare alle persone esattamente ciò che vogliono. Se ci pensi, è ancora più deprimente. L’idea della cospirazione è ottimistica, perché in quel caso con quei bastardi potresti prendertela! Potresti sperare in una rivoluzione! Ma le reti sono davvero in affari per dare alle persone quello che vogliono. È la verità. In queste parole c’è traccia di disprezzo, perfino di misantropia, nonché la visione del mondo tipica del venditore. Il cambiamento come categoria di pensiero non sembrava far parte dell’universo di Steve Jobs, sebbene fosse sempre alle prese con il tentativo di migliorare i suoi prodotti. L’idea che vi potesse essere un’organizzazione politica e istituzionale totalmente differente, e che questa potesse dare luogo a una televisione migliore, di cui la popolazione avrebbe potuto godere e che avrebbe potuto svolgere un importante ruolo civile nell’ambito del discorso pubblico, non lo sfiorò mai. Se solo si fosse preoccupato di gettare uno sguardo al di là dell’Atlantico, avrebbe scoperto che una televisione differente – la Bbc, per esempio, o la franco-tedesca Arte – era non solo possibile ma anche fattibile. Jobs affermava di avere tendenze liberal, ma decise di vivere in una specie di bolla intellettuale, il cui tratto caratteristico era decisamente “pre- politico”. In questa bolla erano ammessi solo due generi di persone: i produttori e i consumatori. Norme, leggi, istituzioni, politica: niente di tutto questo contava. Jobs è stato un rivoluzionario, sì, ma limitato; e mai un rivoluzionario così limitato ha innescato una rivoluzione di tale portata. 2 Puro era il complimento più lusinghiero che Steve Jobs potesse concedere: «Ogni volta che mi capita di trovarmi al cospetto della purezza – purezza di spirito e di amore – mi metto a piangere». Per Jobs le idee e i prodotti o avevano purezza, e in tal caso erano superiori a tutto il resto, oppure non l’avevano, e allora dovevano essere rifiutati o modificati. Voleva che i computer Apple fossero «brillanti, puri e sinceri». Ordinò che le pareti dell’azienda fossero dipinte di un bianco-puro, e disse che l’iPad avrebbe dovuto incarnare «la più pura semplicità possibile». Confidava di essere profondamente emozionato dagli «artisti che mostrano purezza», e che una sua ex fidanzata era «una delle persone più pure che avesse mai conosciuto». La Apple, disse nel 1985, «era una pura società della Silicon Valley, come chiunque avrebbe potuto immaginare». Anche Ive, il capo del design Apple, ama la purezza. Non vuole che i suoi prodotti siano di un bianco-chiaro, ma di un bianco-puro, perché «in essi vi sia purezza». Un rivestimento chiaro sull’iPod rovinerebbe “la purezza del suo design”. Ive crede – e sostiene che Jobs condivideva il suo punto di vista – che i prodotti devono apparire «puri e levigati». Sfortunatamente né Jobs né Ive hanno mai detto esattamente cosa intendessero quando parlavano di puro, pertanto dobbiamo desumerlo per via indiretta. Sembra che i prodotti puri siano quelli che presentano una perfetta corrispondenza tra la loro forma e ciò che Jobs e Ive definiscono la loro essenza. Ive ha osservato: «L’idea che i coltelli di cui dobbiamo servirci siano stati messi insieme con la colla ci riesce sgradevole. Steve e io siamo sensibili a questi difetti che compromettono la purezza e l’essenza di un utensile. Sul fatto che i prodotti debbano essere fabbricati in modo da apparire puri e privi di giunture siamo perfettamente d’accordo». È una specie di platonismo industriale. Tutti i coltelli hanno un’essenza, e se la forma di un dato coltello corrisponde alla sua essenza, allora si tratta di un oggetto perfetto, o puro. Non ci devono essere pezzi uniti o incollati; bisogna perseguire soltanto l’integrità di un’unica sostanza in una forma semplice. I prodotti puri nascono tali, non sono costruiti: ogni segno visibile dell’intervento umano – come per esempio una vite – non ci consentirebbe di credere in una più profonda integrità del prodotto, nella sua perfezione. La fascinazione di Jobs e Ive per i concetti di purezza ed essenza non è sfuggita all’attenzione dei biografi di Jobs e di altri seguaci Apple. Ciò che Walter Isaacson racconta dell’idea che stava alla base di Toy Story – il film di animazione computerizzata realizzato nel 1995 dalla Pixar, all’epoca diretta da Jobs – ci fa capire meglio che cosa questi pensasse dell’essenza. Secondo Isaacson, Jobs e John Lasseter, il regista del film, condividevano l’idea che gli oggetti avessero un’essenza propria, uno scopo per il quale sono stati realizzati. Quindi, se si devono attribuire sentimenti a un oggetto, questi devono essere fondati sul suo desiderio di realizzare la propria essenza. Per esempio, scopo di un bicchiere è contenere acqua; se un bicchiere avesse dei sentimenti, sarebbe felice di essere pieno e triste di essere vuoto. L’essenza di uno schermo di computer è interfacciarsi con un essere umano. L’essenza di un monociclo è essere usato in un circo. Nel caso dei giocattoli, la loro essenza è che i bambini giochino con essi e quindi la loro paura esistenziale è di essere scartati o sostituiti da nuovi giocattoli. L’equivalenza descritta da Isaacson tra essenza e scopo complica ulteriormente la questione, dal momento che i prodotti possono essere creati per scopi che non hanno niente a che vedere con la loro essenza (i giochi possono essere costruiti allo scopo di fare soldi). Isaacson ha anche scritto: «Come sempre Jobs è andato alla ricerca della più pura semplicità possibile. Questo ha richiesto di definire quale fosse l’essenza di fondo dell’iPad. La risposta è stata: il display». Seguendo tale logica, allora l’essenza del monociclo è la ruota piuttosto che l’essere guidato in un circo, come lo stesso Isaacson ha detto. Non vorrei sembrare pedante. La questione dell’essenza e della forma, della purezza e del design, può sembrare astratta e oscura, ma è al centro della “filosofia Apple”. La sua metafisica, per dirla in questi termini, trova il proprio fondamento non tanto nella religione quanto nell’architettura e nel design. Sono state queste due discipline a instillare in Jobs le sue ambizioni intellettuali. John Sculley, il precedente amministratore delegato di Apple, la persona che alla metà degli anni ottanta cacciò Jobs dalla società da lui stesso fondata, ha sempre ribadito che tutto alla Apple può essere meglio compreso se visto attraverso la lente del design. Non si può capire che cosa l’azienda di Cupertino pensi del mondo (e del suo ruolo nel mondo) senza confrontarsi con la sua concezione del design. Isaacson si avvicina al cuore del problema quando esamina l’interesse di Jobs per il movimento Bauhaus e la sua ossessione (la stessa di Ive) per la Braun, ma non spinge sufficientemente a fondo la sua analisi. Non si pone per esempio una domanda filosoficamente ovvia: se le essenze non piovono dal cielo, da dove accidenti provengono? Come può un oggetto inesistente – diciamo un iPad – avere un’essenza che può essere scoperta e quindi concretizzata in una forma? L’essenza dell’iPad è qualcosa che Jobs e Ive hanno sognato o esiste in qualche empireo al quale soltanto loro, attraverso un costante esercizio o per intuizione visionaria, hanno accesso? L’idea che la forma di un oggetto debba corrispondere alla sua essenza non significa solo che i prodotti devono essere disegnati avendo presente l’uso al quale sono destinati. Che un coltello sia affilato perché possa tagliare è un punto accettato dalla maggior parte dei designer. La nozione di essenza invocata da Jobs e Ive è più interessante e significativa (nonché più ambiziosa a livello intellettuale), perché si rapporta con l’ideale della purezza. Non importa quanto banale possa essere un oggetto: non vi è mai nulla di banale nella ricerca della perfezione. A un esame più attento le testimonianze indicano che Jobs e Ive pensavano che le essenze esistessero indipendentemente dal designer: posizione, questa, difficile da accettare per l’uomo moderno “secolarizzato”, dal momento che si tratta di una posizione, se non proprio religiosa, quantomeno sorprendentemente platonica. Questo è il punto in cui il background intellettuale della Apple – dal Bauhaus alla Scuola di Ulm, fino alla Braun, l’“applicazione industriale” più vicina all’insegnamento della Scuola di Ulm) – entra in gioco. Il modernismo ha affermato e praticato un’estetica minimalista e ha tentato di eliminare dai prodotti ogni rivestimento e contenuto superfluo (non senza un disaccordo interno sul significato da attribuire alla parola superfluo). Inoltre ha cercato di coniugare la tecnologia con le arti. Il tentativo retorico di Jobs di presentare la Apple come un’azienda capace di unificare il mondo della tecnologia con quello delle arti liberali è stato una reiterazione “made in California” del richiamo del Bauhaus all’unione di tecnologia e arte. Come ha affermato Walter Gropius, uno dei fondatori del Bauhaus: «Arte e tecnologia – una nuova unità». Le idee della scuola di design tedesca hanno ispirato Jobs nel corso di tutta la sua carriera. In occasione di un suo intervento a una conferenza sul design ad Aspen, nel 1983, Jobs propose, in contrasto con l’immagine marcatamente hi-tech della Sony, che «il nuovo design avrebbe dovuto adottare gli insegnamenti del Bauhaus come punto di partenza, e fare riferimento ai suoi caratteri di funzionalità e di verità» (carattere di verità era un sinonimo per essenza). Jobs arrivò a dire che «quello che vogliamo fare [alla Apple] è creare prodotti tecnologici e presentarli in modo che si possa riconoscere che sono hi-tech. Ma saranno piccoli, belli e bianchi, proprio come la Braun ha fatto per l’elettronica». Forse è ad Aspen che il lavoro di Jobs fu paragonato «alla essenziale e funzionale filosofia del design del movimento Bauhaus», dal momento che gli edifici dell’Aspen Institute erano stati co-progettati da Herbert Bayer, veterano della scuola di Weimar. È possibile che proprio sulla scia della creazione negli anni [...]... sopravvento sugli altri Jobs aveva capito il rischio della perdita di controllo in un qualsiasi punto della filiera produttiva: così decise che la Apple avrebbe avuto addirittura i propri punti vendita, per gestire anche l’ultima fase del processo, quali che fossero i costi dell’operazione Insomma, per poter innovare al proprio ritmo Cupertino doveva avere il controllo su tutto Questa era per Jobs l’unica opzione... nuova rete di comunicazione è destinata a influenzare il modo in cui vivremo nel futuro? Steve Jobs: Non credo sia una buona idea parlare di questo genere di cose Basta aprire un qualsiasi libro oggi, per leggere su questo argomento una marea di sciocchezze Rolling Stone: Ci interessa il tuo punto di vista Steve Jobs: Non penso al mondo in questi termini.Sono uno che costruisce cose È così che mi vedo... fosse una sorta di religione è nel giusto più di quanto creda: questa compagnia opera sul presupposto che i suoi designer, e Steve Jobs in testa, siano qualitativamente differenti da tutti noi Il culto del designer è il fondamento della “religione secolarizzata della mela morsicata” Jobs è stato abbastanza furbo da capire che, fino a quando la Apple fosse stata percepita come un’azienda che aveva diretto... pubblicitario a vincere un premio a Cannes Jobs non ha mai perso l’occasione per condire la propria storia o creare connessioni laddove non esistevano La copertina dell’“Economist” dedicata a Jobs nella settimana della sua scomparsa lo presentava come “The Magician”, il mago, ma un appellativo più adatto sarebbe stato quello di “costruttore di miti” Appena poteva Jobs ricordava che la Apple era nata in... preferenze dei clienti in merito alle forme e alle funzioni Per i consumatori abbracciare tali prodotti significa, dunque, abbracciare il più elevato spirito della modernità: una lezione che Steve Jobs ha imparato fin troppo bene Jobs ha espresso a chiare lettere la propria totale indifferenza nei confronti del consumatore; il quale, secondo lui, non sa davvero cosa vuole La più incredibile illusione operata... attori, sorprende che Jobs abbia voluto fare un così largo affidamento su Foxconn, il più importante ma anche il più problematico dei suoi fornitori 4 Jobs non ha mai elaborato una coerente teoria della tecnologia, ma le sue risposte nette agli intervistatori mostrano come fosse pronto a pensare alla tecnologia in prospettiva filosofica Se seguiamo il filo delle numerose interviste, Jobs si rivela un... molti studiosi affermano che la tecnologia sia neutrale, Jobs era pronto a discutere dei valori veicolati dai prodotti e dalle applicazioni che utilizziamo Questo punto emerge con chiarezza ancora maggiore se ascoltiamo come Jobs affrontò l’ipotesi di acquistare una lavatrice: Abbiamo trascorso molto tempo a discutere in famiglia dei pro e dei contro di ciò che stavamo per fare Abbiamo parlato a lungo... camminare come sonnambuli in una Dallas virtuale Al contrario la Apple, durante tutto il periodo in cui Steve Jobs l’ha diretta, si è costantemente rifiutata di riconoscere che vi fosse qualcosa di importante per il web che rischiava di essere compromesso Interrogato sul futuro di internet nel 1994, Jobs fu restio a pensarla in termini ecologici: Rolling Stone: Parliamo un po’ di internet Ogni mese cresce... sviluppo di un’esistenza più umana sulla Terra», e Steve Jobs ci ha proposto qualcosa di simile soltanto qualche decennio dopo Uno degli obiettivi più importanti nella sua vita, ha detto, era di «creare grandi cose e non di fare soldi, riconducendo quanto più possibile gli oggetti stessi nell’alveo della storia e della coscienza umana» In questa impresa Jobs si è sicuramente distinto: i suoi prodotti... video pubblicitario della mela morsicata della metà degli anni ottanta mostrava le truppe delle grandi aziende marciare imperterrite verso un abisso… – Steve Jobs ha finito per somigliarvi, divenendo indifferente se non addirittura ostile agli ideali della controcultura che aveva sposato anni prima Sfortunatamente, la maggior parte di noi è troppo assuefatta ai prodotti Apple per pretendere o aspettarsi . c’erano grandi temi da affrontare? Cosa ne è stato dello Steve Jobs pensatore? Il fatto che tutti i libri dedicati di recente a Steve Jobs dicano così poco del suo profilo intellettuale è di. fare Steve Jobs che non sono riusciti a fare gli altri imprenditori? Evgeny Morozov, l’enfant terrible del web, ha affilato la sua penna, ha preso un bel respiro, e si è buttato a testa bassa contro. dedicati a Jobs che in questi ultimi mesi hanno popolato le librerie e internet. Un’analisi caustica e illuminante sul “miracolo Apple”. La domanda a questo punto sorge spontanea: Steve Jobs è