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La controriforma della dialettica hegeliana. In risposta a La riforma della dialettica hegeliana di Giovanni Gentile

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Adalberto Coltelluccio La controriforma della dialettica hegeliana In risposta a La riforma della dialettica hegeliana di Giovanni Gentile La trascendenza della categoria logica in Hegel L'idea essenziale che anima la dialettica hegeliana è, secondo Giovanni Gentile, la categoria logica intesa come concetto puro, ossia come concetto la cui verità è data non dalla sua oggettività, ma dall'essere qualcosa di posto dall'atto soggettivo Questa concezione della categoria logica, ricorda Gentile, era già stata elaborata, come è noto, da Kant Il filosofo attualista, a sua volta, contrappone una tale categoria come atto soggettivo all'Idea platonica, che per sua natura è trascendente, e all'universale aristotelico, per il suo carattere formale Ora, il bersaglio critico di Gentile è l'aspetto ancora trascendente che la categoria logica riveste in Hegel Nel filosofo tedesco, nonostante l'affermazione della «apriorità della sintesi o originarietà ed assolutezza della relazione»,1 che costituisce la categoria come atto soggettivo, questa resta qualcosa di oggettivo e di non immanente all'atto stesso del pensiero Tale categoria è, a giudizio di Gentile, un concetto ancora trascendente il soggetto, qualcosa che sta al di dell'Io considerato come Actus puro Di conseguenza, nel pensiero hegeliano, Gentile crede di poter riscontrare una riduzione oggettivante della categoria, tale da privarla del dinamismo proprio soltanto del soggetto pensante Gentile arriva a considerarla addirittura un «morto essere».2 Ciị che imbriglierebbe il dinamismo dialettico sarebbe lo spirito di «sistema», così dominante in Hegel; sistema che non sarebbe altro che quella stessa relazione categoriale pensata a sé, fuori, cioè, della sua relazione immanente al soggetto pensante, e quindi resa rigida e infeconda nella sua oggettività La categoria diverrebbe, in tal modo, in Hegel una relazione astratta Questo farebbe di Hegel un pensatore non più innovatore di Kant e, anzi, lo ridurrebbe a sterile ripetitore dell'idea di sistema già sufficientemente elaborata, a giudizio di Gentile, da Platone e Aristotele.3 In questa critica ad Hegel, riassunta brevissimamente, da parte del filosofo italiano, ci pare di poter scorgere una profonda avversione per il «Concetto» inteso come ciị che è puramente «pensato», ridotto ci a quella forma cosificata che è, per Gentile, la verità nella sua forma esclusivamente oggettiva, senza connessione immanente col pensiero in quanto «pensante» Questa avversione, paradossalmente, sembra avere una strana analogia una delle figure della coscienza esposte nella Fenomenologia dello spirito di Hegel Infatti, riteniamo che si possa sostenere che essa ripeta in una versione più moderna e teorica, ma sostanzialmente immutata, le struggenti lamentele del soggettivismo pio dell'«anima bella», così ferocemente attaccata nell'opera del filosofo di Stoccarda Quest'avversione per l'oggettività può essere paragonata a quel rifiuto pertinace della coscienza pia a pensare se stessa come qualcosa che possa riuscire a porsi fuori di sé, pur rimanendo se stessa, ossia che possa oggettivarsi senza perdere la propria uguaglianza sé È il rifiuto infecondo ad esteriorizzarsi per appropriarsi della sua stessa «sostanzialità», per usare il linguaggio hegeliano, riflettendo se stessa in ciị che pone e superando così il proprio esser-altro Rifiutando di riflettersi nell'alterità, la coscienza non fa che impedirsi, in fondo, di trovare se stessa, poiché sapere sé come se stessa o come pensante (ma anche come agente, nello «spirito pratico»), implica al tempo stesso e necessariamente il sapersi come pensata, come determinata ad agire e come «sostanziale», ossia effettuale, realizzata nelle proprie istituzioni ecc È pur vero che quest'atto di «alienazione» la coscienza compie insieme una riflessione sulla sua stessa riflessione, grazie alla quale essa trova e pensa nel pensato nient'altro che il pensante stesso, l'Io L'atto cui l'Io pensa se stesso come pensato coincide, in lui, l'atto pensante stesso: ciò che è pensato, insomma, è chi pensa stesso Senonché, senza quell'atto di auto-alienazione l'Io non p nemmeno cogliere e «vedere» se stesso in quanto soggetto e in quanto atto L'Io attua se stesso, in un unico atto assoluto, ma nell'attuarsi non può che farsi al tempo stesso «attuante» e «attuato»: non potrebbe, infatti, essere attuante nei confronti di stesso se non fosse insieme attuato da se stesso Inoggettivabilità dell'Atto puro del pensiero in Gentile Riappropriandosi di se stesso nell'oggetto (il cosiddetto «ritorno in sé dall'esser-altro», da parte dell'autocoscienza), l'Io non perde la sua determinazione d'essere, la sua effettualità, quasi che il pensato venisse «ingoiato», per dir così, dalla coscienza e che l'oggetto posto come se stessa svanisse Anzi, proprio il trovare sé nell'oggettività, fa che l'Io acquisti concretezza e si realizzi, al tempo stesso razionalizzando il reale Tale risultato, come si sa, è conseguito dalla coscienza solo perché il reale stesso, inizialmente saputo come estraneo, viene poi riconosciuto come costituito in sé dal concetto stesso Del resto, come l'essere è uno il pensare, così il pensare è uno l'essere: l'Io sa se stesso e si sa come Io proprio grazie al suo porre in sé questa determinazione necessaria dell'essere e della differenza Non la rifiuta, quindi, sebbene attui questo porsi in essere in modo Incondizionato, soltanto da sé, ossia liberamente Sapersi è, perciò, secondo Hegel realmente farsi-altro, alienarsi e sapere se stesso in ciò che è, dopo che ogni opposizione fenomenologica è stata superata Sapersi è sapersi come essente, e superare l'opposizione tra certezza soggettiva e verità oggettiva Il sapere inteso da Gentile soltanto come Actus puro che non arriva mai ad oggettivarsi, è un inafferrabile introiettarsi del soggetto ponente che sprofonda in un auto-annullamento dello stesso atto che pone, perché è un atto senza esito (privo, cioè, di quello che gli Scolastici medievali denominavano «atto elicito»), senza la forza di porre effettivamente il posto, e di riprenderlo in sé dopo averlo posto Laddove, invece, la verace relazione del sapere è solo quella in cui, per stare alle parole di Hegel, «l'alienazione dell'autocoscienza, proprio lei pone la cosalità, onde l'alienazione significato non solo negativo, ma anche positivo», in quanto l'autocoscienza «sa la nullità dell'oggetto», proprio perché lei stessa vi si è posta e così «resta presso di sé nel suo esser altro».4 Sulla base di questa ricognizione del testo hegeliano, in cui mettiamo in rilievo aspetti che insistono, da un lato, sulla necessità per lo spirito di auto-alienarsi per divenire realmente essente, e, dall'altro, sul fatto che comunque l'autocoscienza «pone sé come oggetto» o, che è lo stesso, «l'oggetto come se stessa»,5 in modo anche da togliere e riprendere in sé tale alienazione nell'oggettività, ci sembra di poter affermare che la pretesa contrapposizione della «dialettica del pensato» alla «dialettica del pensante», di cui parla Gentile, possa valere soltanto per quell'«intelletto astratto» (Verstand) di cui lo stesso Hegel denunciava la fissità e la mancanza di speculatività La dialettica del pensato, se autenticamente dialettica, e dunque in cui si concepisce il pensato essenzialmente come momento che toglie se stesso (essendo negativo in sé), supera la fissità intellettualistica e media se stessa nella dialettica del pensante.6 Il pensato è, così, essenzialmente momento già nello stesso sistema hegeliano, quel momento in cui lo stesso pensante, in quanto posto, viene rinviato a se stesso, in quanto ponente, dalla propria riflessione nell'esser-altro Quella drastica dicotomia tra l'atto puro dello spirito e il porsi nell'oggetto, come in un'alterità radicalmente trascendente, che Gentile lesse nella dialettica hegeliana, alla luce delle precedenti considerazioni apparirebbe meno sostenibile Molteplicità delle categorie e Wirklichkeit dello Spirito Altro aspetto preso di mira dalla critica gentiliana è quello riguardante il concetto di unità del molteplice nella logica hegeliana, che, a suo avviso, lascerebbe sussistere come irriducibili le categorie (di derivazione kantiana), nella loro pluralità irrelata Gentile riconosce a Hegel il merito di avere coerentemente seguito lo schema kantiano della deduzione trascendentale delle categorie, e di aver sostenuto che «la realtà è lo stesso pensiero, e che il vero, il solo reale concetto è lo stesso concepire»,7 ossia l'atto pensante in sé Pensiero qui la valenza dell'atto intrinseco alla categoria come unità del molteplice empiricamente dato nell'intuizione L'Idea assoluta di Hegel non sarebbe nient'altro che appunto la «categoria produttiva del giudizio sintetico a priori, in cui Kant aveva mostrato che si risolve ogni atto reale di pensiero».8 E, del resto, «la scienza dell'idea» come «scienza della relazione», intesa perị «non come pensato, bensì come pensare»,9 è questo stesso sistema delle categorie kantianamente concepito Azzerata, a nostro avviso, la differenza essenziale tra logica trascendentale di Kant e logica dialetticoontologica di Hegel, Gentile pensa che in quest'ultima, che sarebbe quindi sostanzialmente la medesima nei due filosofi tedeschi, verrebbe moltiplicato il numero delle categorie da trattare Vero è che «Hegel bensì, nella sua deduzione, se enumera di fatto le categorie, tende col suo metodo dialettico ad annullarne il numero, mercè quella legge del superamento (aufheben)»,10 e che «tutta la molteplicità delle categorie hegeliane si risolve, infine, nella concreta categoria (sola concreta categoria) dell'idea assoluta, e quindi nell'unità assoluta».11 Ma nel fatto, nell'effettuale procedimento dialettico, Hegel non può non produrre una molteplicizzazione di momenti e di categorie che non risponde al «punto di vista trascendentale, ma solo al punto di vista empirico e storico».12 Dunque, Hegel in realtà «tende ad annullare il numero delle categorie»,13 ma non annullerebbe di fatto il concetto della molteplicità delle stesse, che inficierebbe l'autoattualità immanente e immoltiplicabile del Conceptus Ma, intanto, per esplicita ammissione di Gentile, dobbiamo constatare che il pensante lascia sussistere necessariamente fuori di sé un molteplice empirico che non è immanente alla spiritualità del puro pensare, bensì è un alter non mediato e irriducibile all'unità (perché nell'unità assoluta del pensante è impossibile introdurre qualsiasi molteplicità); alter che è quello del «punto di vista empirico e storico» Vi sarebbe, quindi, nella stessa filosofia dello Spirito gentiliana, qualcosa di eterogeneo alla omogeneità assoluta del pensante, un pensato che sfuggirebbe alla immoltiplicabilità e inoggettivabilità dell'Atto puro del pensiero: un actum, insomma, che non riesce ad essere actus Se questa molteplicità empirica è tacitamente ammessa dall'Attualismo (come lo è, del resto, da parte di tutti gli idealismi della storia della filosofia), quest'ammissione è inevitabile, perché è l'esito necessario cui va incontro ogni Idealismo puro che rifiuti l'auto-realizzazione del pensiero nella realtà già attuata, seppure questa realtà restituisca sempre qualcosa di non razionalizzabile L'effettualità del pensato è, invece, necessaria; e lo è talvolta, malgrado e contro la ragione Certo, Hegel cerca di riportare alla razionalità tutti gli eventi storici che possono essere giustificati in base ad una «ragion d'essere» o fondamento (Grund) Tuttavia, è noto argomento della critica antihegeliana (ci riferiamo soprattutto alla critica ottocentesca, per es., di Trendelenburg, ma anche a quella di Schopenhauer, o di Kierkegaard, di Marx, di Nietzsche) che la razionalità non riesca a giustificare proprio tutto, e che sia costretta a lasciare in preda alla più arbitraria casualità molte delle cosiddette «effettualità» o «realtà in atto» (Wirklichkeit) del processo dialettico del Concetto Ma ciò non è un argomento sufficiente a scongiurare la necessità che lo spirito si cerchi e tenti di trovarsi anche nelle infime regioni dell'essere sia naturale che storico-sociale; anzi sembrerebbe una ragione in più per sostenerne l'esigenza Ad ogni modo, comunque, l'effettualità dell'autocoscienza è in sé un momento razionale ed essenziale alla vita dell'Idea Ciò non significa che il processo dialettico muti irreversibilmente il «pensante» in «pensato», o che lo ponga come qualcosa di sostanzialmente trascendente rispetto al soggetto come atto puro, oppure come qualcosa di refrattario al «lavoro» del negativo Significa, perị, che la Totalità, nella quale soltanto può cogliersi per Hegel la verità, si costituisce sempre come un processo di auto-attuazione del Concetto, ove sono compresi al tempo stesso sia il pensante sia il pensato, come momenti assolutamente inscindibili che non possono sussistere nel loro isolamento l'uno rispetto all'altro, pena il ritorno ad una visione intellettualistica e astratta A rigore, non sarebbe da accettare come valida nemmeno l'accusa gentiliana che nella dialettica hegeliana sia presente una dicotomia tra pensante e pensato, in quanto la dialettica del Concetto già risolto e superate tutte le opposizioni proprie del sapere fenomenologico Quando si considera il pensiero nella sua assolutezza, e in questo senso mostra sempre di parlarne Gentile, il processo dialettico non divide mai in un modo astratto, quale potrebbe essere quello che vede nell'articolarsi dell'unità e nell'auto-distinguersi del Concetto, soltanto un «fissarsi» nella contrapposizione delle categorie del Begriff, o delle figure del Geist Tale fissarsi intellettualistico considera sempre i distinti come assolutamente uno fuori dell'altro e incapaci di auto-invertirsi in loro stessi Ma effettivamente nella dialettica hegeliana è in opera tale auto-inversione: il pensante è sempre in sé-pensato, e il pensato è sempre in sé-pensante Il pensiero assoluto si auto-distingue eternamente da se stesso proprio per auto-attuarsi, e dunque resta già sempre in una relazione di auto-eguaglianza se stesso, ogni volta che si pone nei distinti Il che equivale a dire che il pensiero, anche come Actus, mentre è pensante se stesso è sempre anche pensato da se stesso, in modo da non restare irrimediabilmente separato da se stesso, proprio perché ciò che esso pensa coincide inscindibilmente chi lo pensa Nonostante gli inevitabili giri di parole, il senso complessivo crediamo che rimanga chiaro Ci piace ricordare, a questo proposito, l'eloquente citazione che Hegel fa, alla fine della sua Enciclopedia, relativa alla nozione aristotelica del «pensiero di pensiero»14 (nịesis nseos): «Epperị l'Intelletto pensa se stesso, se è vero che esso è il bene supremo, e il suo pensiero è pensiero-di-pensiero» L'inscindibile atto auto-riflessivo dell'Idea assoluta corrisponde proprio al pensiero-di-pensiero, in cui è superata ogni possibile separazione ed esclusione dell'oggettività che, nella sua verità, non è altro che il Concetto pensante stesso in quanto si è attuato (Wirklichkeit) Il nocciolo speculativo proprio della dialettica hegeliana ci sembra, a questo punto, più vicino alla dialettica dell'Atto puro di quanto, forse, non pensasse lo stesso Gentile Note G Gentile, La riforma della dialettica hegeliana, Sansoni, Firenze, 1913, p Ibid «Perché già nella dialettica quale la concepisce Platone le idee sono concepite come costituenti essenzialmente un sistema [ ] E tutta la logica formale, svoltasi dall'Analitica aristotelica, [ ] non poteva muoversi e in realtà non si è mossa mai fuori di questo concetto» (ivi, pp 3-4), che è quello «dell'assoluta oggettività della verità» (ibid.) G W F Hegel, Fenomenologia dello spirito, traduz it E De Negri, La Nuova Italia editrice, Firenze, 1979, vol II, p 287 Ivi, p 288 Non ci sembra avere altra funzione che questa di mediare la contrapposizione tra pensato e pensante, la celebre articolazione nei tre momenti del processo logico-ontologico, descritti da Hegel come: «a) l'astratto o intellettuale; b) il dialettico, o negativo-razionale; c) lo speculativo o positivo-razionale» (Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, traduz it B Croce, Roma-Bari, 1980, vol.I, p 95) Proprio l'ultimo momento ci pare decisivo per l'atto dello spirito che riprende in sé ogni opposizione, togliendo ogni alterità e ogni estraneità rispetto al Concetto assoluto, attraverso il secondo momento dialettico-negativo Gentile, op cit., p 8 Ibid Ibid 10 Ivi, p 11 Ibid 12 Ivi, p 10 13 Ivi, p 14 Aristotele, Metafisica, 1074 b 35-37 Alessandro Medri Il fiore azzurro Considerazioni sul rapporto tra filosofia e poesia in Heidegger, Valéry e Novalis Nell'azzurro cristallo Sta pallido un uomo, la guancia appoggiata alle sue stelle; O china il capo nel sonno purpureo Ma il volo nero degli uccelli sfiora sempre Chi guarda, la santità di fiori azzurri, la quiete vicina pensa cose dimenticate, angeli spenti 1 Premessa Per lo meno tre atteggiamenti fondamentali sono possibili, al fine di approssimarsi alla essenza della poesia in particolare e dell'arte in generale: a si può intendere l'opera d'arte come strutturalmente informata dallo spirito del tempo [Zeitgeist] in cui è sorta, come in qualche modo da esso determinata, sua manifestazione sensibile In tale prospettiva, l'accento è chiaramente posto sul genio collettivo come elemento ermeneutico centrale; b potremmo altresì interpretare l'opera d'arte a partire dall'intentio dell'artista che la prodotta, al fine di evincere ciò che in essa e tramite essa egli voluto esprimere L'opera è in tal caso considerata come un mezzo per comunicare un certo messaggio; di guisa che ad agire è qui il genio individuale; c il terzo approccio, ritenuto peraltro eterodosso dalla maggior parte dei critici, giacché trascende le due dimensioni testé illustrate, attribuisce all'opera d'arte un valore non già indipendente sibbene ulteriore rispetto a quello riconducibile al contesto d'origine e alla volontà dell'autore I tre livelli (che potremmo chiamare storico, psicologico e metafisico) non sono autonomi e separati, anzi vicendevolmente si reclamano; tuttavia essi non sono punto equivalenti: tra loro, infatti, è presente una precisa gerarchia, la quale contempla il terzo approccio ermeneutico come quello filosoficamente più fecondo Ad esempio, è evidente che il poema dantesco fornisce elementi preziosi per ricostruire lo spirito della cultura medievale; è parimenti ovvio e attestato che ogni dettaglio è stato abilmente concretato dal poeta, detiene nella di lui mente un preciso significato ed è collocato in una posizione che non potrebbe essere diversa nella formidabile e perfetta architettura complessiva: per tutti gli elementi in gioco sarebbe possibile risalire all'esatto valore storico e simbolico che Dante desiderava conferire loro (su questo, Charles Singleton e Erich Auerbach hanno scritto pagine memorabili e da cui certo non si può prescindere) Ciò nondimeno, commetteremmo una leggerezza qualora ci arrestassimo a quest'ordine di considerazioni Il centro vitale della Commedia, a mio avviso, è da ricercarsi contrariamente a quanto la critica sempre sostenuto nei numerosi luoghi, soprattutto della terza Cantica, in cui il poeta confessa la propria inadeguatezza rispetto alla comunicazione dell'intuizione che gli è stata elargita La grandezza del poema, insomma, risiede non solo e non tanto nella sua pur mirabile monumentalità, ma nella sua natura di esperienza mistica poeticamente narrata.2 Ancora: quantunque sia indubbio che i tre solenni rintocchi che aprono il suo IX Sonetto (né più mai, sorta di Schicksalmotiv, come all'inizio della Quinta Sinfonia di Beethoven, della Quarta di Èaikovskij e anche della Seconda di Mahler) Foscolo volesse introdurre ad una tragische Weltanschauung ohne Erlösung, sviluppata compiutamente in ogni riga dei suoi scritti, il senso ultimo della poesia (di questa come di ogni poesia autentica) pare essere rinvenibile solo altrove Quando Dilthey si impegna nella ricostruzione della poetica dei massimi autori tedeschi della seconda metà del XVIII secolo (Lessing, Goethe, Novalis, Hölderlin), fonda le sue ricognizioni sui primi due dei tre aspetti che ho rintracciato, specialmente sul secondo: la poesia [Dichtung] è manifestazione dell'esperienza vissuta [Erlebnis] dell'autore.3 Ciò che intendo sostenere è semplice: esiste un significato dell'arte irriducibile alle condizioni storiche durante le quali essa è stata prodotta e alle intenzioni dell'artista che la concepita, nonché all'oggetto che è stato causa occasionale della sua origine.4 Se un'opera si presenta come una descrizione di qualsivoglia oggetto, non per questo dobbiamo necessariamente concludere che essa si risolva in una mera rappresentazione; ciò neppure quando l'artista programmaticamente intende la propria opera come esaurientesi in una Darstellung di natura realistica Il suprematismo di Maleviè e l'astrattismo in genere mostrano come l'arte sia quintessenzialmente decisa da ogni ingenua «obiettivita» Aderisce completamente a una simile prospettiva Giuseppe Ungaretti, quando, in Ragioni d'una poesia, dice: «Oggi il poeta sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d'Iddio, anche quando è una bestemmia» Che l'artista lo voglia o meno, terminus a quo e terminus ad quem del suo lavoro convergono e convengono in un unico punto: il Sacro [das Heilige]: «C'est une erreur contraire la nature de la poésie, et qui lui serait même mortelle, que de prétendre qu'à tout poème correspond un sens véritable, unique, et conforme ou identique quelque pensée de l'auteur».7 Thomas Mann compreso molto bene come in arte ci siano dimensioni che sfuggono al controllo dell'autore Nella celebre lezione di Princeton sullo Zauberberg, egli afferma infatti: Accetto volentieri gli aiuti della critica altrui, perché è errore credere che l'autore sia colui che meglio conosce e può commentare la propria opera Lo è forse fintanto che vi indugia e vi sta lavorando Ma un'opera compiuta e lasciata alle spalle gli diventa sempre più estranea, distaccata, e col tempo gli altri ne sono informati e vi si raccapezzano meglio di lui, sicché possono rammentargli molte cose che egli dimenticato o forse non neanche saputo mai chiarezza In genere, si bisogno di essere ricordati a se stessi I primi due momenti ermeneutici (storico e psicologico) giustificano e implicano un lavoro di parafrasi onde acquistare una interpretazione univoca; il terzo (metafisico) rifiuta o supera la parafrasi,9 poiché riconosce il carattere originariamente evocativo e sorgivo del linguaggio poetico, e, inoltre, si fonda sul canone ermeneutico principale: quello della necessaria coralità delle interpretazioni in conseguenza della inesauribilità semantica della poesia e della convergenza dei veri in un unico punto inattingibile e inattuale che è la loro origine: «ogni strada nuova attraversa paesi nuovi e ognuna, alla fine, riporta a queste dimore, a questa patria sacra» 10 Come dice Valéry e lo vedremo più approfonditamente in seguito: Quanto più un poema è conforme alla Poesia, tanto meno può essere pensato in prosa senza che venga distrutto Riassumere o volgere in prosa un poema, significa ignorare semplicemente l'essenza d'un'arte La necessità poetica è inseparabile dalla forma sensibile.11 Porsi in ascolto del linguaggio poetico nella sua originarietà allusiva alla fonte: è ciị che Heidegger chiama Erưrterung Heidegger e l'irriducibile inattualità del linguaggio poetico Ci sarà sempre qualcosa che la parola non può rendere compiutamente, e che non è il superfluo, ma l'essenziale.12 La mia opera consta di due parti: di ciò che qui è scritto, e di tutto ciò che io non ho scritto E proprio questa seconda parte è quella importante 13 Una cosa è certa: Heidegger non avrebbe mai definito metafisico il proprio approccio ermeneutico alla poesia (e all'arte) Ma qui non si tratta di sottoscrivere in toto le sue tesi, men che meno quelle relative alla metafisica occidentale Si vuole solamente recuperare il pondus, lo spirito, per così dire, che sostanzia le sue analisi al fine di ritenerne gli spunti più significativi Erörtern significa rapportarsi al luogo [Ort] in cui dimora l'essenza del linguaggio Per raggiungere tale regione, ci si deve abbandonare al linguaggio medesimo, senza volerlo costringere entro le nostre anguste categorie Esso si sottrae a una mera trattazione logico-filologico-scientifica.L'essenza del linguaggio perdura in ciò che è stato detto, perché nel detto il linguaggio si è già realizzato Per questa ragione, nel primo dei saggi che compongono Unterwegs zur Sprache (1959), Heidegger si dispone al commento di una poesia di Georg Trakl (Una sera d'inverno) Fra le altre, troviamo questa frase fondamentale: «Che il poeta sia lui, non importanza: qui, come in ogni altro caso di poesia riuscita La grandezza sta appunto in questo: che può prescindere da persona e nome del poeta».14 Una analisi particolareggiata della poesia non farebbe, a giudizio di Heidegger, che perpetuare una fuorviante precomprensione imperante da due millenni, ossia che il linguaggio è l'espressione, attuata dall'uomo, di moti interiori dell'animo e della visione del mondo che li regge [ ] Il linguaggio [invece], nella sua essenza, non è né espressione né attività dell'uomo Il linguaggio parla Noi ricerchiamo ora il parlare del linguaggio nella poesia Ciò che si cerca è, pertanto, racchiuso nella poeticità della parola.15 Il linguaggio nomina, non nel senso che attribuisca ad ogni cosa un nome, ma nel senso che chiama, e-voca Chiamare è chiamare nella vicinanza; pertanto, ciò che è chiamato, qua talis, sussiste come l'ancora assente Tale absens, che la poeticità del linguaggio evoca, è das Geviert, la quadratura hölderliniana di cielo e terra, uomini e dei Il Geviert è adunanza di una doppia polarità, la quale, per sua natura, indica la fonte originaria da cui essa medesima scaturisce La poeticità del linguaggio consiste in questo: che esso, evocando il Geviert, allude al principio inattuale e inattingibile, sorgente da cui il linguaggio proviene e che nel linguaggio si annuncia come evento [Ereignis] Il linguaggio chiama nella prossimità un assente irriducibilmente remoto in quanto istituisce una dif-ferenza [Unter-schied] Il linguaggio poetico, fondamentalmente, nomina la differenza Non è linguaggio che determina e concepisce, ma parola che apre e rinvia alla propria condizione di possibilità Heidegger chiama il Geviert anche die Welt Il mondo è ciò che consente la cosa, ciò in cui la cosa è cosa, così come il principio è ciị che consente il mondo Il rapporto fra essi è segnato dalla differenza.16 Il linguaggio, evocando la differenza, nomina il rapporto di cosa, mondo e principio L'intimità di tale rapporto, che nel linguaggio si annuncia e viene alla presenza, li acquieta nella semplicità della loro essenza La totalità dei componimenti di un poeta non esaurisce il senso del suo poetare Ogni poetare autentico proviene da un unico poema originario che la totalità delle poesie addita senza risolverlo in essa Il pensiero deve entrare in dialogo la poesia per riattingere l'essenza pura del linguaggio; la quale consiste in ciò, che il linguaggio è l'Aperto in cui l'essere si eventua L'essere, giacché possibilizza ogni definizione, non può venire compiutamente semantizzato; possiamo unicamente disporci al semplice annuncio del suo e-venire e del suo a venire: «La Erưrterung che il pensiero viene compiendo p tutt'al più fare dell'ascolto un problema e renderlo, nel caso migliore, più pensoso».17 Ciò che i quattro del Geviert indicano e che nella Lichtung aperta dal linguaggio poetico si annuncia lo chiamiamo das Heilige; l'ultimo Dio ci salverà in quanto risveglierà la nostalgia [Heimweh] ormai obliata, in questo tempo di inedia [in diese dürftiger Zeit], per il Sacro: Il linguaggio della poesia di Trakl attinge la sua parola dal trapasso Il sentiero di questo conduce dal tramonto, che è rovina, al tramonto che è passaggio nell'azzurro crepuscolare del Sacro Il linguaggio attinge la sua parola dal viaggio che porta oltre e attraverso il lago notturno della notte spirituale Tale linguaggio canta il canto del distacco che è ritorno dalla tarda ora del disfacimento e rientro nel mattino di quell'inizio più quieto che ancora non è stato In questo linguaggio parla das Unterwegs, attraverso cui si fa percepibile la musica e la luce degli anni spirituali dello straniero dipartito.18 Ventitré anni prima della pubblicazione di Unterwegs zur Sprache, Heidegger tenne un famoso ciclo di tre conferenze che andò poi a costituire il primo degli Holzwege col titolo Der Ursprung des Kunstwerkes (1936) Ur-sprung è il salto originario, ciò da cui e per cui una cosa è ciò che è; allora il problema dell'origine coincide il problema dell'essenza (dacché l'essenza [das Wesen] è ciò che qualcosa è essendo ciò che è il positivo che risulta, secondo Hegel, dalla negazione determinata come secondo fondamentale momento del processo dialettico) Ora, è l'opera d'arte che a noi si presenta e che esibisce l'arte nella sua essenza Per coglier l'essenza dell'arte dobbiamo volgerci all'opera nel suo immediato apparire Il dato più evidente è che l'opera è qualcosa, ossia non è un puro ni-ente (N-ichts) Che significa essere qualcosa? Che è la «cosalità» di una cosa? E, soprattutto, in che differisce l'esser-cosa di una cosa dall'esser-cosa di un'opera? La cosa è stata intesa dalla filosofia via via come hypokèimenon (ricettacolo di accidenti), come àistheton (oggetto percepito dai sensi) e come synolon di hyle e morphè Un oggetto naturale, ad esempio un blocco di granito, è un sinolo la cui forma è determinata dalla disposizione delle particelle che ne costituiscono la materia Anche una brocca, una scure, una scarpa sono dotate di materia e forma; solo che, in questi casi, è la forma che si impone sulla materia e ne configura l'ordinamento La materia è scelta sulla base di ciò cui l'oggetto dovrà servire: origine e fine di questi oggetti risiedono nella usabilità Il mezzo un nome adeguato alla sua natura: esso è un che di intermedio tra cosa e opera d'arte Riposa in sé come la cosa ed è frutto di un'attività umana come l'opera d'arte, ma non possiede né la caratteristica dell'esser-sorta da sé propria dell'una né l'autosufficienza del suo esser-presente propria dell'altra Le scarpe di un contadino sono un mezzo L'esser-mezzo del mezzo consiste nella sua usabilità Le scarpe sono mezzo nella misura in cui vengono calzate e utilizzate nel campo: sono tanto più mezzo quanto meno si pon mente al loro esser-mezzo, quanto più la coscienza del loro esser-mezzo si dilegua in chi le usa Nell'usare il mezzo, la sua usabilità è dimenticata come costituente la sua essenza Noi possiamo accedere all'esser-mezzo del mezzo solo quando il mezzo è sottratto alla sua destinazione, quando l'usabilità che lo fa essere mezzo viene meno Nell'uso, l'esser-mezzo del mezzo si risolve nella usabilità; tolto l'uso concreto, l'usabilità attuale, emerge il mezzo nel suo puro esser-mezzo Un siffatto emergere avviene nell'opera d'arte Quando Van Gogh disegna le scarpe da contadina, le sottrae al loro concreto impiego e le porta a stare nella stabilità del loro apparire Nell'opera d'arte, l'ente si presenta nel suo non-nascondimento [Unverborgenheit]: Nell'opera è in opera l'evento della verità Nell'opera d'arte la verità dell'ente si è posta in opera [ ] Nell'opera è in opera l'apertura dell'ente nel suo essere, il farsi evento della verità [ ] L'opera d'arte apre, a suo modo, l'essere dell'ente Nell'opera luogo questa apertura, cioè lo svelamento, cioè la verità dell'ente Nell'arte è posta in opera la verità dell'ente L'arte è il porsi in opera della verità 19 Quest'idea apocalittica, rivelativa dell'arte corrisponde al senso dello spirituale nell'arte, una conquista teorica tutta otto-novecentesca A partire da Cézanne, la luce non illumina più gli oggetti manifestandoli nella loro semplice presenza (come accade nel Rinascimento e fino a Caravaggio), ma ne rivela la più intima essenza La ricerca proustiana e joyciana delle claritates, che svelino la quidditas degli oggetti, è tutta su questa linea: gli oggetti sono o possono essere a certe condizioni epifanie dell'origine Ciò che distingue il mezzo dall'opera è il fatto che mentre il primo subordina a sé la materia in vista dello scopo cui deve servire, nella seconda la materia viene alla luce nella maniera più alta Solo nel tempio la pietra dispiega le sue potenzialità essenziali; il pittore non usa la materia colorata, ma fa che essa si esprima, la illumina; il poeta non usa la parola come coloro i quali chiacchierano per abitudine, ma la conduce a divenire e a rimanere veramente parola L'essenza della verità, così come essa si dà nell'opera d'arte, è caratterizzata da un continuo sottrarsi, da un pertinace diniego Il sottrarsi non è nulla di negativo, ma, anzi, il principio grazie a cui la Lichtung può aprirsi in mezzo all'ente La verità non è mai un nascondimento definitivamente scovato dal suo riparo, compiutamente disvelato La verità si dà solo come dialettica di Verborgenheit e Unverborgenheit; l'opera d'arte s-vela e ri-vela la verità che in essa è posta in opera: «Le considerazioni che precedono concernono l'enigma dell'arte, quell'enigma che l'arte stessa è Esse sono ben lontane dalla pretesa di sciogliere questo enigma Ciò che conta è vederlo» 20 Ogni tentativo estetico non può che essere misterioso, poiché l'arte è voce di un mistero, custodito in quanto tale dalla Terra, che impedisce al mondo aperto ed esposto dall'arte di perdere la sua «costante inoggettività» e di essere fra-inteso come la totalità della verità disvelata: «Esponendo un mondo e facendo esser-qui la terra, l'opera è l'attuazione di quella lotta in cui è conquistato il non-essere-nascosto dell'ente nel suo insieme: la verità».21 Nell'arte, la verità si annuncia in maniera sublime; del sublime fa parte la duplicità, la lotta, la dialettica: «Il limite estremo del sublime [ ] si trova la dove due mondi diversi e congiunti si separano a un tratto, e un'illuminazione fulminea ci consente di intravederli nello stesso momento, un unico sguardo» 22 Ogni nostro percorso verso la verità rimane pur sempre un Holzweg che indica il Centro del Bosco, frammento di una verità non raggiungibile che per intuizione ed allusione, sillaba dell'Unico Lògos che conferisce senso a tutti i discorsi La verità, come dialettica fra nascondimento e illuminazione, e-viene in quanto poetata, si storicizza ponendosi in opera: «la poesia [Poesie] è soltanto un modo della progettazione illuminante della verità, cioè del poetare [Dichten] nel senso più ampio».23 Tuttavia, la poesia non è solo un'arte fra le altre: il linguaggio istituisce l'Aperto in cui l'ente in quanto ente è portato all'apparizione Il linguaggio nominando l'ente, lo fa accedere alla parola e all'apparizione per la prima volta 24 Il linguaggio è essenzialmente Poesia, in quanto luogo dell'evento dell'essere dell'ente nel suo aprimento Esso custodisce l'essenza originaria della Poesia; pertanto in esso la poesia si realizza: «l'essenza dell'arte è la Poesia Ma l'essenza della Poesia è l'instaurazione della verità».25 L'origine dell'opera d'arte è l'arte, nella misura in cui l'arte è essenzialmente origine: l'arte fa scaturire la verità, la pone in opera un salto [Sprung] che muove dalla sua provenienza essenziale: questo risuona nella parola Ur-sprung L'essenza dell'arte è detta dall'endiadi goethiana Dichtung und Warheit: l'arte è Poesia, la Poesia è luogo eminente dell'avvento della verità Valéry: ispirazione e costruzione Quel che non si sente, non s'afferra Ed egualmente quel che non sgorga impeto dall'anima, o che non trascina gli spiriti degli uditori simpatia profonda di natura Ma sicuro: statevene pure a sedere! Impastate, rimpolpettate insieme gli avanzi dei desinari altrui; suscitate pure qualche miserabile fiammella dal vostro mucchiettino di cenere! Sarete la meraviglia delle scimmie e dei ragazzi, dato che ci troviate gusto Ma un cuore al vostro cuore non avvicinerete mai, se quel che dite non viene dal cuore! 26 Siamo ora in procinto di compiere un ulteriore passo in direzione della comprensione dell'essenza della poesia e del suo rapporto la filosofia Per ciò fare, ci affideremo a uno dei grandi poeti del Novecento, Paul Valéry, seguendo l'incedere leggiadro quanto inesorabile del suo saggio su Poesia e pensiero astratto.27 La positio di questa fondamentale quaestio avviene spesso nella forma della op-positio: Poesia e Pensiero, come dire Caldo e Freddo, Secco e Umido, Bene e Male Ogni parola, perfettamente perspicua allorché si presenti in un discorso ordinario, diviene «magicamente e stranamente resistente e ingombrante» qualora venga abstracta dalla circolazione, dalla sua dimora in-mezzo al linguaggio Così, indifesa, la parola p essere soggetta più diversi usi e abusi, finendo per allontanarsi irrimediabilmente dalla sua origine Si deve perciò fare attenzione quando ci si presentano innanzi questi due massi erratici (poesia e pensiero astratto) Che cosa succede nell'anima di un lirico quando viene sorpreso dall'ispirazione? L'ispirazione, lo stato poetico, erompe quando la vita momentaneamente esce dal suo ciclo consueto e ne inaugura un altro, separato e insolito: la vita, per qualche tempo, si affaccia a sé meraviglia e stupore, per poi ritornare al regime abituale dell'esistenza, del pensiero e del loro rapporto Questa ec-stasis temporanea, questa fuoriuscita dalla normalità, si lascia dietro qualcosa, provoca una «capacità poetica» Questo salto è indispensabile affinché si dia poesia: non c'è un poeta solo poeta, né un Il Messia sono Io, ed Essere Io è essere Messia Si vede dunque che il Messia è il giusto che soffre, che egli preso su di sé le sofferenze degli altri D'altra parte, chi è che prende su di sé le sofferenze degli altri se non colui che dice "Io"? L'ipseità stessa è definita da questo non sottrarsi al peso che impone la sofferenza degli altri Tutte le persone sono Messia L'Io in quanto Io, prendendo su di sé tutta la sofferenza del Mondo, si designa da solo per questo ruolo Designarsi da sé, non sottrarsi fino al punto di rispondere prima ancora che l'appello risuoni: tutto questo è essere Io [ ] Questo vuol dire che ognuno deve agire come se fosse il Messia Il messianismo non è la certezza della venuta di un uomo che arresta la storia: è il mio potere di sopportare la sofferenza di ognuno È l'istante in cui riconosco questo potere e la mia responsabilità universale.88 Il Messia è allora l'Io che sa sopportare il peso della sua condizione irrecusabile di ostaggio, l'Io che si scopre se stesso nell'esposizione all'altro, preliminare ad ogni decisione, l'Io che veglia sull'altro e dall'altro viene risvegliato, in una parola: l'umano Ma se il Messia, da unica persona capace di liberare questo mondo, diventa una vocazione da realizzare in ogni momento della propria vita, un compito che ogni uomo deve assolvere responsabilmente in prima persona, si può allora ben comprendere ciò che sottintende Levinas queste parole: Mi è stato chiesto se l'idea messianica ancora un senso per me, e se è necessario conservare l'idea di una tappa ultima della storia in cui l'umanità non sarà più violenta, in cui squarcerà definitivamente la crosta dell'essere e in cui tutto si chiarirà Ho risposto che per essere degni dell'era messianica bisogna ammettere che l'etica un senso, anche senza le promesse del Messia 89 Partire dall'ebraismo? Nei commenti talmudici, quindi, Levinas pone in luce quell'etica della responsabilità che caratterizza i suoi saggi più significativi e che è descritta dalla particolare figura del risveglio; d'altro canto, però, si è visto come sia da considerarsi indiscutibile la rilevanza del Talmud nella formulazione delle tesi principali della filosofia levinassiana Questo «doppio movimento» alla base, in realtà, un ulteriore spostamento di livello: il risveglio acquista attraverso i testi talmudici una profondità inedita, per certi versi né catalogabile né definibile, e che lascia alcune questioni aperte D'altro canto, e qui si fa necessaria una parentesi, gli ultimi sviluppi della ricerca filosofica sugli scritti levinassiani, che hanno visto l'importante pubblicazione degli inediti Carnets de captivité e Notes philosophiques diverses, sembrano confermare forza l'irrinunciabilità del confronto la c? téebraica del pensatore lituano Scritti all'incirca tra il periodo della prigionia e la pubblicazione di Totalité et Infini,90 queste pagine testimoniano di un pensiero in ricerca, libero e originale, dove il legame tra filosofia ed ebraismo è sorprendentemente molto più esplicito, rispetto alle pubblicazioni edite conosciute fino ad oggi: la filosofia in divenire di Levinas si scopre fin da subito ricerca di una via alternativa all'ontologia heideggeriana nelle pieghe dell'ebraismo La prigionia e lo hitlerismo, a detta del filosofo, hanno fatto si che l'ebreo si sentisse, di nuovo, «ineluttabilmente connesso al proprio ebraismo», 91 e che ritrovasse così la propria identità israelita: dalla lettura di queste pagine, è evidente che è proprio da qui che Levinas intenzione di partire In due appunti dei Carnets, segnati nella stessa pagina, si può leggere: «partir du Dasein ou partir du J.» e ancora «J comme catégorie».92 Nello stesso momento in cui Levinas elaborava il suo primo confronto critico l'ontologia in De l'existence l'existant, insomma, vi è un tentativo di fare dell'essere-ebreo il punto di partenza e separazione dall'ontologia, poiché unico luogo possibile per una nuova interpretazione dell'uomo e della sua soggettività Le Notes, poi, sono ancora più ricche di riferimenti espliciti a questo tema L'interesse di Levinas, in queste notazioni, è principalmente per la metafora, considerata dal pensatore come l'essenza stessa del linguaggio spinto all'estremo, capace di significare aldilà di ciò che dice Se la filosofia levinassiana è ricerca di trascendenza e superamento nella relazione l'altro, nell'esigenza di rispondergli e, rivolgendosi a lui, nell'essere in relazione stessa il superiore, allora questo spirituale si dona per eccellenza in ciò che viene definito «miracolo» 93 della metafora: la relazione sensibile, esigente e insistente l'altro come altezza e volto, e il pensiero della metafora come cammino verso l'altezza, sono indissolubili In questo contesto, non può che meritare estrema attenzione il fatto che siano presenti nelle Notescitazioni di varia lunghezza in ebraico, riguardanti questioni squisitamente filosofiche Non sembra, infatti, trattarsi semplicemente di una questione linguistica o di traduzione, ma di un contributo irrinunciabile all'elaborazione del pensiero levinassiano, che passa indelebilmente per un idioma che porta sé tutta l'esperienza millenaria di studio e commento del popolo ebraico: le citazioni di passaggi biblici e talmudici, presenti davvero in gran numero e associate a temi filosofici fondamentali nella meditazione di Levinas, sono ricche di associazioni di senso radicate nella tradizione ebraica di lettura della Bibbia che va detto nella maggior parte dei casi il mondo filosofico ignora Per una comprensione il più possibile completa e definitiva della ricerca filosofica di Levinas, il «»ebraismo è quindi un passaggio obbligato, e per i motivi che abbiamo già esposto ancora tutto da indagare E le letture talmudiche diventano allora a maggior ragione dopo la pubblicazione dei Carnets delle Notes- uno dei luoghi privilegiati di confronto e approfondimento del delicato rapporto tra ebraismo e filosofia all'interno del pensiero levinassiano Un rapporto che, se letto nella prospettiva corretta, non è né quello di un filosofo ebraico (la ricerca di Levinas è legata fin dall'inizio al metodo fenomenologico husserliano), né quello di un filosofo sulla scia dei maestri Husserl e Heidegger La definizione che forse più da ragione di questa ambivalenza è quella data da David Banon, capace di sottolineare la separazione e il dialogo tra l'ambito filosofico ed ebraico, scrivendo di Levinas come un ebreo che pensa.94 Note Emmanuel Levinas, «De l'évasion», Recherches Philosophiques, V (1935-36), pp 373-392, riedito in volume da Jacques Rolland, trad it di Donatella Ceccon, Dell'evasione, Cronopio, Napoli 2008, p 46 Con questo aggettivo, Levinas intende classificare i testi della sua produzione dedicati alla lettura del Talmud o a temi comunque specificamente giudaici Cfr Franỗois Poiriộ, Emmanuel Levinas Essai et entretiens, Actes Sud, Arles 2006, pp 61-169 Salomon Malka, Emmanuel Levinas La vie et la trace, trad it di Claudia Polledri, Emmanuel Levinas La vita e la traccia, Jaca Book, Milano 2003, p 230 Ibid «Non si sa granché di questo personaggio Non si conosce il suo nome - Chouchani non è il suo vero nome Si ignora la sua origine, la città di nascita, l'ambiente in cui è cresciuto, il luogo dove fatto i suoi studi [ ] Visse tutta la sua vita come un clochard, senza un domicilio fisso, vagando da una città all'altra, passando da New York a Strasburgo, da Strasburgo a Parigi, poi a Gerusalemme ed infine a Montevideo, in Uruguay, dove si spense nell'anonimato Con questo epitaffio sulla tomba: "la sua nascita e la sua vita sono annodate da un segreto"» (Ivi, p 156) Per una ricerca biografica su Chouchani, cfr Salomon Malka, Monsieur Chouchani L'énigme d'un Mtre du XXème siècle, J C Lattès, Paris 1994 Franỗois Poiriộ, Emmanuel Levinas, cit alla nt 3, p 160 In un'altra intervista, Salomon Malka chiede a Levinas se è merito di Chouchani la sua scoperta del Talmud Levinas risponde: «Io non so neppure se ciị che so è già una scoperta, ma è lui che mi mostrato come bisogna leggerlo Accanto al suo genio, alle sue conoscenze, alla sua potenza dialettica, tutto impallidisce [ ] Chouchani era molto duro, esigente verso di me come verso tutti Maestro inflessibile! Ma quando aveva un sorriso di incoraggiamento, significava molto E talvolta egli aveva questo sorriso per dei passaggi midrashici che io tentavo di commentare Egli pensava che non bisogna costruire né speculare nell'astratto, ma nell'immaginazione Bisogna pensare a dei mondi che sono evocati da ogni immagine del testo, allora il testo si mette a parlare» (Salomon Malka, Lire Levinas, ed it a cura di Emilio Baccarini, Leggere Levinas, Queriniana, Brescia 1986, pp 116-117) Tra questi, assieme a Levinas, va ricordato anche un altro nome illustre: Elie Wiesel « I trattati talmudici costituiscono la trascrizione - avvenuta tra il II e il VI secolo della nostra era delle lezioni orali e delle discussioni svoltesi tra i dottori rabbinici Queste lezioni e queste discussioni sono, per la tradizione ebraica, insegnamenti risalenti al Sinai, che completano e chiariscono gli insegnamenti della Torah scritta (la Bibbia e, più particolarmente il Pentateuco) e che, Torah orale, significano teologicamente la Parola e la Volontà di Dio la stessa autorità della Torah scritta [Un testo talmudico è composto di] due parti distinte poste l'una dopo l'altra: Mishnah e Gemara Mishnah significa "insegnamento" o "lezione da ripetere" Gemara vuol dire "tradizione"; essa appare come commento o discussione della Mishnah; è anche il termine il quale si designa l'insieme del Talmud (Mishnah + Gemara), termine che significa, all'incirca, "studio" Il Talmud (o la Gemara) rappresenta la Torah orale attraverso la quale la Torah scritta è letta nel giudaismo tradizionale La Mishnah enuncia insegnamenti pratici o relativi alla condotta (Halakah) attribuiti dottori rabbinici della più grande autorità - i Tannaiti - e messi per iscritto verso la fine del II secolo della nostra era [grazie all'opera di Rabbi Yehudah Ha-Nasi, nell'anno 186 d.C La parte più narrativa del Talmud, composta di aneddoti, conversazione, aforismi di tutti i generi, generalmente di interesse filosofico o morale, viene chiamata invece Aggada] La Gemara, che si riferisce il più delle volte agli enunciati della Mishnah, è composta dalle discussioni che ebbero luogo nelle accademie rabbiniche della Terra Santa e di Babilonia a partire dal terzo secolo tra i dottori chiamati Amorei; queste discussioni furono messe per iscritto verso la fine del VII secolo» (Emmanuel Levinas, L'au-delà du verset Lectures et discours talmudiques, trad it e cura di Giuseppe Lissa, L'aldilà del versetto Letture e discorsi talmudici, Guida Editori, Napoli 1986, pp 164-164, nn e 4) Per un'analisi esaustiva delle articolazioni della tradizione interpretativa ebraica (Talmud, letteratura midrashica, traduzioni della Torah, ), cfr David Banon, La Lecture infinie Les voies de l'interprétation midrachique, trad it Di Giuseppe Regalzi, La lettura infinita Il midrash e le vie dell'interpretazione nella tradizione biblica, Jaca Book, Milano 2009 Emmanuel Levinas, Quatre Lectures Talmudiques, trad it e cura di Alberto Moscato, Quattro letture talmudiche, Il melangolo, Genova 1982, p 34 10 Va aggiunto che le recenti pubblicazioni dei Carnets de captivité e delle Notes philosophiques diverses - in Emmanuel Levinas, Cahiers de captivité et autres inédits, a cura di Rodolphe Calin e Catherine Chalier, Imec Grasset, Angoulê2009 - sembrano mostrare un rapporto tra ebraismo e filosofia esplicito e già forte negli anni dell'elaborazione di De l'existence l'existant Cfr paragrafo di questo saggio 11 Cfr Shmuel Wygoda, ôLe maợtre et son disciple: Chouchani et Levinas», Cahiers d'études levinassiennes, (2003), pp 149-183 12 David Banon, La lettura infinita, cit alla nt 9, p 145 All'interno del passo, si trova tra virgolette un estratto di Emmanuel Levinas, Quattro letture talmudiche, cit alla nt 10, p 104 13 Si pensi alla vicinanza la disseminazione di Jacques Derrida: «il Midrash si lascia guidare, quando vuole, dalla forma fisica dei vocaboli Modo di leggere che assomiglia procedimenti della "disseminazione" in uso oggi in certi circoli d'avanguardia» (Emmanuel Levinas, L'aldilà del versetto, cit alla nt 9, p 119) 14 Cfr ivi, p 189, n Ecco il passo di Rabbi Hayyim di Volozhin: «i nostri maestri insegnano che tutte le loro parole somigliano a braci (Avot 2, 10) [Per quale ragione? Perché?] se soffi sulla brace - in apparenza spenta e in cui rimane una sola scintilla - la rianimerai smuovendola e l'attizzerai soffiando su di essa E più soffierai, più la fiamma avvamperà e più si propagherà il fuoco, finché si trasformerà in un focolaio incandescente Allora potrai approfittarne, facendoti luce col suo fulgore o riscaldandoti vicino al suo braciere Ma soltanto ad una certa distanza, senza possibilità di toccarlo [ ] [E Rabbi Hayyim conclude:] anche se le loro parole ci sembrano semplici e prive di stile, in realtà sotto l'azione del martello si disseminano Perché più si triturano e si esaminano meticolosamente queste parole, più i nostri occhi si rischiarano per lo sfavillio del loro lume vivace, e più si troverà un contenuto insospettato, come dicono i nostri maestri: "volgiti e ritorna là, perché tutto vi si trova " (Avot 5, 22)» (Rabbi Hayyim di Volozhin, Nefesh hahayyim, trad fr a cura di Benjamin Gross, L'âme de la vie, Verdier, Lagrasse 1986, parte III, cap I) 15 Cfr David Banon, La lettura infinita, cit alla nt 9, p 39 16 Letteralmente spiegazione e/o ricerca; questo termine indica allo stesso tempo il procedimento interpretativo e l'insieme dei commentari ebraici al testo biblico, la cui compilazione va dal V al XIII secolo d.C 17 Emmanuel Levinas, Dalla scrittura all'oralità, prefazione a Cfr David Banon, La lettura infinita, cit alla nt 9, pag 11 18 David Banon, La lettura infinita, cit alla nt 9, pp 241-242 19 Ivi, p 255 20 Ivi, p 232 21 «Sono arrivato a utilizzare tutto questo [i testi talmudici] partendo dalla filosofia tradizionale Ho pensato per molto tempo che fosse una cultura 'a lato' Ho avuto un rapporto approfondito il pensiero talmudico piuttosto tardi, a contatto M Chouchani Egli non mi infuso nulla del suo immenso sapere, né certo della sua incomparabile intelligenza, ma mi insegnato come si dovevano affrontare questi testi, questo fondo irraggiungibile A confronto lui, tutto questo è nulla e noi non si è nulla [ ] Ne ho conservato un ricordo indimenticabile e incomunicabile della vita dello spirito» (Emmanuel Levinas, Transcendance et intelligibilité, trad it e cura di Francesco Camera, Trascendenza e intelligibilità, Marietti, Genova 1990 p 58, corsivo mio) 22 Franỗois Poiriộ, Emmanuel Levinas, cit alla nt 3, p 131 23 Richard A Cohen, «Levinas and Rosenzweig: Proximities and Distances», Cahiers d'Ètudes Levinassiennes, (2009), p 21 24 Emmanuel Levinas, A l'heure des nations, trad it e cura di Silvano Falcioni, Nell'ora delle nazioni, Jaca Book, Milano 2000, p 204 25 Franỗois Poiriộ, Emmanuel Levinas, cit alla nt 3, p 132 26 Sal 119, 19 27 Franỗois Poirié, Emmanuel Levinas, cit alla nt 3, p 132 28 Emmanuel Levinas, Trascendenza e intelligibilità, cit alla nt 21, p 39, corsivo mio 29 Un'operazione che si concluderà soltanto Autrement qu'être, in risposta soprattutto alle considerazioni di Derrida, che imputerà a Levinas di aver criticato l'ontologia presupponendo e utilizzando il linguaggio ontologico Cfr Jacques Derrida, Violence et métaphysique Essai sur la pensée d'Emmanuel Levinas, in Jacques Derrida, L'écriture et la différence, trad it di G Pozzi, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1990, pp 99-198 30 A zzolino Chiappini, Amare la Torah più di Dio Emmanuel Levinas lettore del Talmud, Giuntina, Firenze 1999, p 268 31 Emmanuel Levinas, Du Sacré au Saint Cinq nouvelles lectures talmudiques, trad it e cura di Ornella Nobile Ventura, introd di Sofia Cavalletti, Dal Sacro al Santo Cinque nuove letture talmudiche, Città Nuova, Roma 1985, p 138 32 Al ritorno dalla prigionia trascorsa nello Stalag XIB nella regione di Hannover, Levinas scoprirà di aver perso tutta la sua famiglia in una fucilazione a Kaunas Si salveranno soltanto la moglie Raïssa e la figlia Simone, grazie all'accoglienza accordata dal monastero di Saint-Vincent de Paul, vicino ad Orléans (cfr Salomon Malka, Emmanuel Levinas, cit alla nt 4, pp 75-91) 33 Id., Leggere Levinas, cit alla nt 7, p 82 34 Ivi, p 83 35 Emmanuel Levinas, Noms propres, trad it e cura di Francesco Paolo Ciglia, Nomi propri, Marietti, Casale Monferrato 1984, p 156, corsivo mio 36 Le conferenze di Levinas, infatti, si svolgono cadenza quasi annuale dal 1963 al 1989 e trattano dei temi più eterogenei: «timidezza e audacia Morale e politica Il messianismo e la fine della storia Il perdono La tentazione Israele Il mondo bisogno degli ebrei? Giudaismo e rivoluzione La giovinezza d'Israele Gli ebrei e la società desacralizzata Lo Shabbat Solitudine di Israele La guerra Il modello occidentale Comunità musulmana Religione e politica La comunità La Bibbia al presente Israele, il giudaismo e l'Europa L'idolatria Zakor, memoria e storia Le settanta nazioni Il denaro La questione dello Stato In quanto a me Questi furono i temi dei colloqui che si susseguirono dal 1957 al 1989» (Salomon Malka, Emmanuel Levinas, cit alla nt 4, p 134) 37 Emmanuel Levinas, L'aldilà del versetto, cit alla nt 9, p 111 38 Cfr Emmanuel Levinas, De l'existence l'existant, trad it di Federica Sossi, premessa all'ed it di Pier Aldo Rovatti, Dall'esistenza all'esistente, Marietti, Casale Monferrato 1986 pp 61-65 39 Pier Aldo Rovatti, «L'insonnia Passività e metafora nella "fenomenologia" di Levinas», Aut - aut, 209-210 (1985), p 71 40 Emmanuel Levinas, L'aldilà del versetto, cit alla nt 9, p 116 41 Ivi , p 119 42 Cfr Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, Adelphi, Milano 1997 Il testo si presenta come un monologo di un ebreo del Ghetto di Varsavia, sopravvissuto agli orrori della Shoah 43 Emmanuel Levinas, Difficile Liberté Essais sur le judaïsme, trad it integrale e cura di Silvano Falcioni, Difficile Libertà, Jaca Book, Milano 2004, p 182, corsivo mio 44 Id., Nell'ora delle nazioni, cit alla nt 24, p 70 45 Emmanuel Levinas, Entre nous Essais sur le penser-à-l'autre, trad it e cura di Emilio Baccarini, Tra noi Saggi sul pensare-all'altro, Jaca Book, Milano 1998, p 36 46 Id., Quattro letture talmudiche, cit alla nt 10, p 145 Questa concordanza di «rivelazione» e «comandamento» è centrale nel pensiero ebraico Anche Rosenzweig, in un saggio in cui si trovano le concezioni generali che saranno poi alla base della Stella, esprime più o meno la stessa idea: «la rivelazione dice: fai la mia volontà, compi la mia opera! Presupposto dunque: che l'uomo divenga fiduciario del proprio Dio, della volontà di Dio, dell'opera di Dio così da compierla» (Franz Rosenzweig, Die Schrift, ed it a cura di Gianfranco Bonola, La scrittura Saggi dal 1914 al 1929, Città Nuova, Roma 1991, p 251) 47 Id., L'aldilà del versetto, cit alla nt 9, 234, corsivo mio 48 Id., Quattro letture talmudiche, cit alla nt 10, p 89 49 Id., Autrement qu'être ou au-delà de l'essence, trad it e cura di Silvano Petrosino e Maria Teresa Aiello, Altrimenti che essere o al di dell'essenza, Jaca Book, Milano 1983, p 189 50 Id., Quattro letture talmudiche, cit alla nt 10, p 87 51 Ivi, pp 92-93 52 Id., Dal Sacro al Santo, cit alla nt 31, p 120 Il corsivo per "insonne" e "sveglio" è mio 53 «Il Dio che è passato non è il modello di cui il volto sarebbe l'immagine Essere a immagine di Dio non significa essere l'icona di Dio, ma trovarsi nella sua traccia Il Dio rivelato nella nostra spiritualità giudaico-cristiana conserva tutto l'infinito della sua assenza nell'ordine personale stesso Si mostra unicamente attraverso la sua traccia, come nel capitolo 33 dell'Esodo Andare verso di Lui non significa seguire questa traccia che non è un segno, ma andare verso gli Altri che si trovano nella traccia» (Id., En découvrant l'existence avec Husserl et Heidegger, trad it integrale a cura di Federica Sossi, Scoprire l'esistenza Husserl e Heidegger, Cortina, Milano 1998, p 233) È ancora possibile, dopo queste parole, poter sostenere l'esistenza separata di un «Levinas filosofo» ed un «Levinas interprete del Talmud»? 54 Cfr Id., L'aldilà del versetto, cit alla nt 9, p 191 55 Id., Altrimenti che essere, cit alla nt 49, pp 177-178 56 Id., L'aldilà del versetto, cit alla nt 9, p 208 57 La conferenza, dalla quale è stata poi trascritta la lezione, è dell'11 dicembre 1989 58 Il contesto è la preghiera in favore della perversa Sodoma minacciata dal castigo di Dio 59 Emmanuel Levinas, Nouvelles lectures talmudiques, trad it a cura di Beato Caimi, Nuove letture talmudiche, SE, Milano 2004, pp 84-85 60 Cfr Es 25, 23-30 e Lv 24, 5-9 Il passo del Levitico menziona in primo luogo la confezione del pane - in traduzione italiana chiamato «pane di proposta» - da depositare tutti i Sabati e da esporre fino al Sabato successivo; poi, la deposizione di questi pani su un tavolo, «davanti al Signore, sempre» e il loro consumo ogni Sabato da parte dei pontefici o da parte dei sacerdoti Il passo dell'Esodo tratta della fabbricazione del tavolo destinato a portare questo pane 61 Emmanuel Levinas, L'aldilà del versetto, cit alla nt 9, pp 94-95 62 Id., Dall'esistenza all'esistente, cit alla nt 38, p 50 63 Ivi , p 53 64 Cfr Id., Dal Sacro al Santo, cit alla nt 31, pp 81-111 65 Ivi , p 102 66 Azzolino Chiappini, Amare la Torah più di Dio, cit alla nt 30, p 291 67 «L'insonnia non oggetto, né soggetto, avverte Levinas: però qualcosa che a che fare la coscienza vi lavora L'insonnia è ancora l'il y a, è la notte: ma al tempo stesso è un vegliare, forse il limite della veglia E se fosse questo il "risveglio"?» (Pier Aldo Rovatti, «L'insonnia», cit alla nt 39, p 61) 68 Cioè un insegnamento tannaita che non è entrato nella collezione di Rabbi Yehudah Ha-Nasi (barayta significa «esterno» in aramaico) Tutte queste baraytot daranno luogo alla Tosefta, «il complemento», che presenta lo stesso carattere della Mishnah, ma lasciando uno spazio più ampio all'aneddoto Ecco la barayta in questione: «se l'angelo della morte è in città, non si deve camminare sulla via, poiché l'angelo della morte circola in mezzo alla strada; approfittando della libertà che gli è concessa, procede pubblicamente; se la città è in pace, non si deve camminare lati della via, perché, non godendo di libertà, l'angelo della morte avanza nascondendosi» (Trattato Baba Kama 60a-60b, cfr Emmanuel Levinas, Dal Sacro al Santo, cit alla nt 31, p 152) 69 Ibid 70 Emmanuel Levinas, L'aldilà del versetto, cit alla nt 9, p 95 71 In una lezione talmudica del 1988, a sfondo prettamente politico, Levinas esplicita questo concetto per definire propriamente il buon governo Egli scrive, infatti, che un «ordine politico accettabile p instaurarsi tra gli uomini solo se fondato sulla Torah, la sua giustizia, i suoi giudici, i suoi maestri sapienti Politica messianica Attesa, attenzione estrema e storia come veglia» (Emmanuel Levinas, Nuove letture talmudiche, cit alla nt 59, pp 64-65) 72 Emmanuel Levinas, L'aldilà del versetto, cit alla nt 9, p 100 Cfr anche Emmanuel Levinas, Altrimenti che essere, cit alla nt 49, p 141: «più io ritorno a Me, più mi spoglio [ ] della mia libertà di soggetto costituito, volontario, imperialista, più mi scopro responsabile; più sono giusto, più sono colpevole» (corsivo mio) 73 «Il segreto della vita di Israele, il segreto della sua coscienza del "sempre": il "non dormire", come il Guardiano stesso di Israele "che non dorme e non sonnecchia" [Sal 120, 4]» (Emmanuel Levinas, L'aldilà del versetto, cit alla nt 9, pp 95-96) 74 Emmanuel Levinas, Nell'ora delle nazioni, cit alla nt 24, p 98 75 Cfr Emmanuel Levinas, Dal Sacro al Santo, cit alla nt 31, pp 59-80 76 Cfr Emmanuel Levinas, Difficile libertà, cit alla nt 46, 83-124 77 Emmanuel Levinas, Dal Sacro al Santo, cit alla nt 31, pp 68-69 78 Ivi , p 69 79 Ivi , p 80 80 Per il tema del messianismo di Levinas, cfr Azzolino Chiappini, Amare la Torah più di Dio, cit alla nt 30, cap VI 81 Su tutte sicuramente si può pensare alla vicenda di Gesù di Nazaret Ma anche a quella di Sabbataï Tsevi, fondatore del sabbatianismo, che mise a dura prova l'ebraismo del XVII secolo Cfr Gershom Scholem, Sabbatai Zwi Der mystische Messias, ed it a cura di Milka Ventura, Sabbetay Sevi Il messia mistico (1626-1676), Einaudi, Torino 2001 82 Cfr G Scholem, Zum Verständnis der messianischen Idee im Judentum, tr it di Michele Bertaggia, Per la comprensione dell'idea messianica nell'ebraismo in Gershom Scholem, Concetti fondamentali dell'ebraismo, Marietti, Genova 1986 83 Questa definizione di «razionalista» non sembra piacere molto a Levinas, che in una nota alle lezioni talmudiche sui testi messianici scrive: «tuttavia non tutto è stato detto - come talvolta sembra credere Scholem - quando si afferma il carattere razionalista di questo messianismo Come se la razionalizzazione significasse solo la negazione del meraviglioso e come se, nel dominio dello spirito, fosse possibile lasciare valori contestabili senza influire su altri valori» (Emmanuel Levinas, Difficile libertà, cit alla nt 46, pp 83-84, n 1) 84 «Il modo in cui leggo il testo talmudico (modo che non ho certo inventato e che mi è stato insegnato da un maestro prestigioso [Chouchani]) consiste nel non donare mai al termine "Israele" un senso solo etnico Quando si dice che Israele è degno di qualcosa di più grande del messianismo non si tratta solo dell'Israele storico Non è dal fatto di essere Israele che si definisce il qualcosa di meglio, ma è partire dal qualcosa di meglio - la dignità di essere liberato da Dio stesso - che si definisce Israele La nozione d'Israele designa sicuramente un'élite, ma un'élite aperta che si definisce a partire da proprietà che sono concretamente attribuite al popolo ebraico Questo amplia tutte le prospettive che si aprono sui testi talmudici e ci sbarazza, una volta per tutte, del carattere strettamente nazionalista che si vorrebbe dare al particolarismo di Israele Questo particolarismo esiste [ ] ma non possiede in nessun modo un senso nazionalista Una certa nozione di universalità si esprime nel particolarismo ebraico» (Ivi, pp 109-110) 85 Ivi , p 111 Non si può non rilevare la prossimità il pensiero di Franz Rosenzweig, che individua precisamente nella concezione del «tempo»" la principale differenza tra ebraismo e cristianesimo: mentre per i cristiani, l'avvento di Cristo l'eternità fatto il suo ingresso nel tempo, nel mondo ebraico il tempo è precisamente questa eternità «Per lui [il popolo ebraico] la sua temporalità, il fatto che gli anni si ripetano, vale solo come un attendere, tutt'al più come un peregrinare, ma mai come una crescita Crescita significherebbe che per lui nel tempo il compimento rimarrebbe ancora da raggiungere e sarebbe quindi una negazione della sua eternità Poiché l'eternità è proprio questo, che tra l'istante presente ed il compimento non c'è tempo alcuno che possa pretendere di avere posto perché nell'"oggi" è già afferrabile tutto il futuro» (Franz Rosenzweig, Der Stern der Erlösung, ed it a cura di Gianfranco Bonola, La stella della redenzione, Vita e Pensiero, Milano 2005, p 337) 86 Emmanuel Levinas, Difficile libertà, cit alla nt 46, p 115 87 Francesco Camera, introd di Emmanuel Levinas, Il messianismo, Morcelliana, Brescia 2002, p 4041 88 Emmanuel Levinas, Difficile libertà, cit alla nt 46, pp 116-117 89 Id., Ethique et Infini Dialogues avec Philippe Nemo, trad it e cura di Franco Riva, Etica e Infinito Dialoghi Philippe Nemo, Troina 2008, p 108, corsivo mio 90 Per i Carnets, la stesura va dal 1937 al 1950 Per le Notes, si può pensare discreta certezza che siano state composte nel decennio tra il 1950 e il 1960 Cfr Emmanuel Levinas, Cahiers de captivité et autres inédits, alla nt 11 91 Emmanuel Levinas, «L'inspiration religieuse de l'Alliance», Paix et Droit, (1935), p 92 Emmanuel Levinas, Cahiers de captivité et autres inédits, cit alla nt 11, p 75 J senza dubbio sta per Juda?sme 93 Ivi , p 231 94 Cfr David Banon, «Levinas, penseur juif ou juif qui pense», Dialegesthai Rivista telematica di filosofia [in linea], 11 (2009), messo in linea il luglio 2009 url: http://mondodomani.org/dialegesthai/dba01.htm Simon Francesco Di Rupo Il caso Sloterdijk Il terzo incomodo fra Beaufret e Heidegger sul problema dell'umanismo Come ridare un senso alla parola «umanismo»? Come salvare l'elemento di avventura che comporta ogni ricerca, senza fare della filosofia una semplice avventuriera? Jean Beaufret, lettera ad Heidegger, 10 novembre 1946 Lei mi chiede: comment redonner un sens au mot «Humanisme»? La domanda nasce dall'intenzione di mantere la parola «umanismo» Io mi chiedo se ciị sia necessario O non è ancora abbastanza evidente il male che recano tutte le denominazioni di questo genere? Certo, già da molto tempo si diffida degli «ismi» Ma il mercato dell'opinione pubblica ne richiede sempre di nuovi Martin Heidegger, Lettera sull'umanismo Sloterdijk oltre Beaufret e Heidegger le parole di Zarathustra La contemporaneità, per ciò che riguarda lo sguardo della filosofia, rappresenta sempre un orizzonte inesauribile e sfuggente insieme, una stella polare di fronte alla quale ogni sapere è destinato a fare i conti Nell'epoca del cosiddetto «post-moderno» questo orizzonte della contemporaneità si è opacizzato e sgretolato via via fino a profilarsi come scenario o meglio come serie di scenari piuttosto che come panorama nella sua precisa accezione di visione-deltutto (pan-orào) La costante attuale delle filosofie della storia consiste proprio nel congedo da impostazioni speculative tese all'onnicomprensività: sparito il pan-logismo (Hegel), è sparito esso il pan-orama Una frammentarietà di questo tipo da una parte modificato sostanzialmente il piano di lettura della storia come narrazione e teleologia per introdursi in un piano di depotenziamento del primato ontologico; da un'altra garantito una libertà di movimento all'interno del pensiero, il proposito di indagare genealogicamente un concetto fosse anche quello di «storia» anziché prenderlo come presupposto in una sistematica lettura teoretica pretese di coerenza logica universale Un quadro di queste tinte è quello notoriamente costituito dalla comparsa della filosofia di Nietzsche La sua eredità è ben lontana dall'essere sopita e, un esempio particolare nell'ottica della attuale filosofia della storia, lo incontriamo nella figura di Peter Sloterdijk (Karlsruhe 1947), di cui in questa sede si prende in considerazione Regole per il parco umano, controversa relazione del settembre 1999 ora contenuta in Non siamo ancora stati salvati Saggi dopo Heidegger.1 Sloterdijk colleziona in questo libro una serie di saggi che hanno come perno le riflessioni di Heidegger, ma, come suggerisce il sottotitolo, si tratta di saggi dopo Heidegger e non su Heidegger: caratteristica che introduce all'intenzione dell'autore di superare il piano meditativo heideggeriano a favore di uno sguardo più spiccatamente antropologico, come ora vedremo Il sottotitolo di Regole per il parco umano, invece, è emblematicamente Una risposta alla «lettera sull'umanismo» di Heidegger, il che balza direttamente all'occhio come una sorta di presa di posizione da «terzo incomodo» rispetto allo scambio epistolare fra Beaufret e Heidegger cui sinteticamente ci si riferiva nelle citazioni in esergo Ma andiamo per gradi: si accennava al debito nietzscheano, e ci si riferiva più precisamente alla centralità data dallo stesso Sloterdijk alle parole dello Zarathustra de La virtù che rende meschini, delle quali le più altisonanti sono: Io passo in mezzo a questa gente e tengo gli occhi aperti: costoro son diventati più piccoli e diventano sempre più piccoli; ma in ciò consiste la loro dottrina sulla felicità è la virtù [ ] Alcuni di loro vogliono, ma i più sono soltanto voluti [ ] Virtù è per loro ciò che rende modesti e mansueti: a questo modo trasformarono il lupo in cane, e l'uomo stesso nel miglior animale domestico dell'uomo È sulla scorta di questa illustre citazione che Sloterdijk fonda il nucleo della sua interrogazione circa l'umanismo Assumendo la prospettiva di Nietzsche, il nostro filosofo solleva la questione se l'umanismo, di fondo, non sia sempre stato il nome dato alla storia di un addomesticamento e allevamento dell'uomo, per cui questi uomini «soltanto voluti» siano l'effetto di un rimpicciolimento rappresentato da «un rapporto necessario tra leggere, stare seduto e tranquillizzarsi».3 Ma non bisogna inquadrare questa riflessione come una denuncia pseudo-marxista che ravvisi una sorta di sopruso strutturale nelle forme pedagogiche della società, né quindi, in un'ottica per cui l'umanismo sia un «oppio per i popoli», i quali devono programmaticamente emanciparsi, magari assumendo un programma politico che Sloterdijk profili nella sua filosofia Nulla di tutto questo Infatti, leggendo Non siamo ancora stati salvati, non troveremo mai particolari proposte, bensì complesse (e a volte oscure) prese di visione di un crocevia della storia dell'uomo fra una umanità allevata in una maniera e un'umanità che si alleverà diversamente in un futuro non troppo lontano Questo tono fatale delle pagine di Sloterdijk rispecchia la fortuna e al tempo stesso la sfortuna dei concetti da lui tirati in ballo, nella misura in cui prestano il fianco a facili entusiasmi, fraintendimenti come aspre critiche È così infatti che, paradossalmente, mentre Sloterdijk dichiara di volersi allontanare da quello che considera un eccesso di «meditazione pastorale» di Heidegger, cita non poca devozione un passo di Nietzsche che non primeggia certo per una teoresi cartesianamente «chiara e distinta», sebbene anzi proprio di «discorso teoretico sull'uomo» Sloterdijk parli descrivendo a margine la sua citazione Paradosso che lascerebbe l'idea per cui il nostro filosofo non sia che un nietzscheano nutrito da interessi di pedagogia negativa e distopia, ravvisabili dove dice: «inizia ad albeggiare l'orizzonte dell'evoluzione, anche se in modo ancora confuso e inquietante»5, punto che fa chiosa proprio al debito che Sloterdijk riconosce nei confronti di Nietzsche,6 ovvero quella lucidità cui questi rifiutato quella «falsa ingenuità di cui si circonda l'uomo buono della modernità»,7 per effetto di un sospetto verso ogni cultura umanistica, che altro non sarebbe che il velo della domesticazione dell'umanità Nietzsche delimita così lo spazio in cui si giocherà la partita (se non si sta già giocando ora) fra gli allevatori dell'uomo piccolo della tradizione e gli allevatori dell'uomo potenziato L'intelligenza di Sloterdijk qui sta nel non identificare il secondo modello una proposta di Zarathustra, bensì attribuendo alla parola di quest'ultimo un valore mediano (e forse ben più rilevante!) di intuizione dello spazio stesso fra le due modalità di allevamento; del resto egli stesso non si pronuncia espressamente a favore del secondo modello, preferendo piuttosto sottolineare l'importanza del pensiero pericoloso che è proprio di quella intuizione nei confronti della storia che legittima gli enigmi di filosofi come Heidegger, Nietzsche e per finire, potremmo dire, anche come Sloterdijk stesso.8 «Duemilacinquecento anni di effetto-Platone» Ma è proprio qui che tutto parrebbe consegnare il discorso sloterdijkiano ad una fin troppo semplice figura di epigono del percorso Nietzsche-Heidegger che introdotto il '900, che lo scritto del 1999 fa sentire tutto il peso di un secolo in più di tumulti filosofici e di problematiche umanistiche, non ultima quella della tecnica Il tempo di prendere la rincorsa un originale e curioso riferimento all'antico Platone ed ecco che Sloterdijk ci catapulta nel cuore del bivio della nostra epoca di confusione sulla natura dell'uomo e nel cuore del suo «pensiero pericoloso», il quale, il concetto di umanità come parco umano, vede Platone stesso come primo antropotecnico Questa che a prima visione pare una provocazione forzata, invece per Sloterdijk una sua profonda legittimità dal momento in cui il Politikòs di Platone9 non è «significativo solo perché mostra, in modo più chiaro di altri, ciò che l'antichità intendeva realmente per pensiero [ ] La portata incommensurabile di questo scritto e il suo posto nella storia del pensiero sull'uomo, consistono innanzitutto nel fatto che il testo si sviluppa come un colloquio di lavoro tra allevatori».10 Qui Sloterdijk si riferisce al dialogo fra lo straniero e il giovane Socrate, ritenendolo fortemente elitario e scopi manovrieri nei confronti della società, poiché essi «parlano della comunità umana come di un giardino zoologico»,11 forti di una considerazione dell'uomo sotto l'ottica della sua animalità da controllare, ma nei limiti imposti dalla caratteristica cooriginaria proprio all'animalità: la naturale tendenza a produrre un effetto parco; ovunque essi vivano «gli uomini devono farsi un'opinione sulle regole della conduzione di sé»12, e il parere a riguardo dei due dialoganti sfocia nella tesi per cui l'allevatore (per usare il vocabolario di Sloterdijk) deve essere non solo di grado superiore, ma di specie superiore La critica al sofista, infatti, avviene dal momento in cui si ritiene mendace e affabulatore il suo pretendere parità «il gregge» per ottenere il consenso, mentre l'onestà dell'allevatore platonico starebbe nel considerarsi differente e «farebbe capire discretamente che lui, poiché agisce saggezza, è più vicino agli dèi di quei confusi esseri viventi che custodisce».13 Il paradosso per il bene dell'umanità consisterebbe quindi, per l'interpretazione che Sloterdijk di Platone, nel fatto che l'allevatore si pone su un piano di differenza antropologica se non addirittura ontologica Per il lettore che oggi guarda indietro ginnasi umanistici dell'epoca borghese e all'eugenetica nazista e contemporaneamente getta già uno sguardo verso l'epoca biotecnologica, è impossibile misconoscere l'esplosività di queste riflessioni 14 Qui Sloterdijk si rivolge al lettore, ma senza particolari intoppi siamo disposti a credere che parli anche per sé stesso In questa constatazione a metà fra il diaristico e il colloquiale, la possibilità che l'uomo sia da sempre solo l'effetto di una regolamentazione di un parco colpisce l'autore stesso che ne parla, l'enfasi tipica di una tragedia: Dopo duemilacinquecento anni di effetto Platone, ora sembra che non solo gli dèi, ma anche i saggi si siano ritirati, e che ci abbiano lasciati soli, la nostra sconsideratezza e le nostre mezze conoscenze su tutto 15 Il tono nichilistico che qui l'autore adotta è confidenziale, vicino alle preoccupazioni dei nostri tempi In una parola: umano La freddezza impersonale cui pronuncia il suo pensiero pericoloso sulla storia dell'uomo come storia della domesticazione (come quello di Nietzsche e di Platone), accompagnata proprio da questa sensibilità più preoccupata che preoccupante, tardano e fondamentalmente ridimensionano l'idea che potremmo farci di uno Sloterdijk post-umanista; definizione generalmente associatagli su cui il presente lavoro vuole ragionare il beneficio del dubbio Il bivio del cupio dissolvi A dieci anni di distanza dalla stesura del testo Regole per il parco umano, oggi, disponiamo della possibilità di ridiscutere i termini in cui si svolgono le sue tematiche al di fuori delle prime reazioni che all'epoca suscitò, fra riverberi mediatici enfatizzanti e demonizzazioni di rimbalzo Ma oltre al privilegio storiografico del tempo che passa e rende più tiepido qualsiasi scandalo, a soccorrere il tentativo di obiettività del nostro lavoro è proprio la struttura del testo Non siamo ancora stati salvati Saggi dopo Heidegger,16 il quale, una forma appunto piuttosto heideggeriana, presenta una collezione di saggi una successione non arbitraria Non a caso infatti, in un'operazione che voglia meglio contestualizzare il saggio cui ci si sta maggiormente riferendo, si può fare cenno a due passaggi chiave dell'intero volume, uno precedente a Regole per il parco umano e uno successivo, due passaggi in cui il pensiero sulla storia attuale appare ben più definito, o forse più complesso rispetto alla semplice storia della domesticazione sin qui accennata Nel capitolo L'ora del crimine del mostruoso la storia dell'uomo viene vista in un'ottica per cui lo stato attuale è lo stato del superamento della modernità tramite la «globalizzazione come produzione del presente permanente sulla Terra»,17 idea per cui Sloterdijk ritiene doveroso precisare (come largamente fa il pensiero pos-moderno) che il pensiero contemporaneo sulla storia attuale deve staccarsi dalle strutture delle filosofie della storia tradizionale, sottolineando che gli uomini «non vogliono fare la storia [ ] ma hanno invece intenzione di concluderla»,18 come se il leitmotiv della modernità fosse la iperproduzione di un presente da ipostatizzare all'insegna di una autoriflessività in grado di rendere quel parco umano il luogo in cui il problema di una fine e di un fine termini nella coincidenza dell'una l'altro Il crimine del mostruoso corrisponderebbe di fatto proprio a questo sebbene l'ambiguità del termine tedesco ungeheuer («mostruoso»; «enorme»; «smisurato») lasci molte porte aperte all'interpretazione.19 La condizione che però fa da specchio alla modernità sta nel bivio di fronte al quale la strada per l'epoca successiva presenta due vie: verso la catastrofe o verso la continuità Sotto la prima vanno incluse le forme tradizionali dell'apocalisse delle epifanie teologiche al fianco dell'ipotesi di disastri biosistemici, verso le quali Sloterdijk non nutre particolare inclinazione, liquidandole rapidamente a favore della seconda via, in cui per «continuità» va intesa la legittimità del processo di domesticazione e allevamento dell'uomo secondo il prospetto cui si riferisce Regole per il parco umano Ma a soccorrerci per meglio inquadrare questa prospettiva, imponente quanto poco chiara (e poco chiarita) dobbiamo fare riferimento, come sopra annunciato, a un capitolo precedente, ossia Aletheia o la miccia della verità, in cui si comprende come il passaggio alla «continuità» viva nel momento attuale una stagione di stallo, per cui «l'uomo è legato oggi alla sua immagine di fabbricatore che non sa convincere sul banco degli imputati e deve ascoltare le requisitorie dei pubblici ministeri, che gli imputano la sua hybris, la sua sopravvalutazione di sé [ ] la sua semicompetenza semicriminale nella presa di potere tecnologico sulla Terra».20 Questa «diffidenza» del mondo attuale nei confronti delle proprie potenzialità creative non deve però essere considerata come una categoria psicologica, ma come il clima della nostra epoca contrassegnata da una secolarizzazione che congedato le forme tradizionali di definizione della trascendenza per inaugurare il primato della tecnica 21 La creatività totalmente spoglia da inibizioni storiche i suoi tempi Anche qui le parole di Zarathustra tornano curiosamente vicine, quando in Sulle Isole Beate egli sostiene che non può esservi dio altrimenti non sarebbe possibile creare 22 Ma la cosa più curiosa pare piuttosto essere l'evenienza a partire dalla quale l'uomo si risveglierebbe dal torpore umanista per poter creare la tecnica senza più riserve: Il lato della natura naturans, attraverso un sapere tecnico creativo, diventerà più virulento che mai sotto la pressione di un disastro ecologico o demografico incombente [ ] L'accusata volontà di potenza sarà citata nelle prossime sessioni processuali in qualità di soccorritrice nella miseria [ ] L'experimentum mundi potrebbe ancora riuscire, come sempre in modo temporaneo e regionale, solo se il nostro calendario si lacerasse per far apparire una verità finora latente 23 La curiosità di questa evenienza non sta nel tono profetico discutibile o meno che si voglia, quanto piuttosto, ad un occhio più acuto, nel fatto che in un altro momento (sopra citato) Sloterdijk ponga un bivio fra la possibilità di una catastrofe o la via della «continuazione», mentre in questa sede egli fa coincidere i due momenti come necessariamente richiamati Questa, è lecito dirlo, è una incoerenza che non permette al nostro filosofo di comunicarci un pensiero esatto su questo bivio Il tono profetico riesce così addirittura a non esserlo abbastanza Nel frattempo, però, poco sotto a questo intoppo, l'intelligenza di Sloterdijk nel porsi fuori da una pericolosa adesione si manifesta in lucide parole: Nel suo infausto colloquio lo Spiegel Heidegger aveva detto: «Ormani solo un dio ci può salvare» Dopo tutto ciò che oggi sappiamo, la parola dio dovrebbe essere sostituita dall'espressione «la capacità di creare nature» Ma questa espressione suona così entusiastica che ci rende piuttosto perplessi riguardo a questo oracolo di Heidegger Perché essa acquisisca un senso praticabile, bisognerebbe allora ritradurla in un'espressione come «la capacità di cooperare le nature» La cooperazione presuppone avvedutezza e relativizzazione di sé rispetto all'altro [ ] La società mondiale sarà una società dell'avvedutezza o non ci sarà affatto.24 È incredibilmente densa questa pagina di Sloterdijk in cui dalla prospettiva di un experimentum mundi fondamentalmente inevitabile si passa a un responsabile richiamo a una forma di «avvedutezza» e «relativizzazione di sé» Il rischio di una società mondiale che non ci sia affatto è in Sloterdijk motivo di suggestione alla pari le potenzialità della creatività umana Questo peculiare cupio dissolvi, questa paradossalità può essere vista come insufficienza teoretica, ma allo stesso tempo ci offre un ritratto esistenziale del pensatore del «mostruoso» che ben poco di postumano Le incoerenze sono ancora umane e la bellezza di uno stupore e di una meraviglia di un uomo come dell'uomo in generale di fronte all'inesplorabilità totale del reale, negativo o positivo che sia, sono qualcosa di simile alle parole di San Paolo nella Lettera Filippesi, 1, 23-24: Sono messo alle strette tra due scelte: il desiderio di morire (cupio dissolvi) ed essere Cristo [ ] ma d'altra parte è più necessario, per voi, che resti nella carne Sloterdijk umano troppo umano Il problema che ora si pone, alla luce di queste incoerenze, sta nell'inquadrare quale tipo di contributo Sloterdijk ci consegna nel pensiero contemporaneo sui problemi che la tecnica ci sottopone Si è visto finora, fra le considerazioni a margine di tratti salienti e le riflessioni nell'apparato di note, come l'idea di uno Sloterdijk totalmente post-umanista debba essere affrontata cautela La tiepidezza malinconica delle conclusioni cui volgono i capitoli di Non siamo ancora stati salvati, così come la puntualità cui Sloterdijk si sottrae a un'adesione all'eugenetica o ad approfondimenti più curati nei punti più cocenti sono ancora elementi troppo poco consistenti per poter parlare di apologia dell'eugenetica o di un manifesto del postumanesimo Si prendano due esempi molto chiari: il primo riguarda la mancanza di una fondazione chiara del concetto di abbrutimento: cosa intende Sloterdijk quando dice: «chi oggi si interroga sul futuro dell'umanità e dei media umanizzanti, vuole in fondo sapere se c'è una speranza di padroneggiare le attuali tendenze all'imbarbarimento dell'uomo»?25 Altrove egli dice giustamente: «L'umanista stesso dovrebbe perdersi almeno una volta nella folla schiamazzante, solo per chiarire che anche lui è un uomo e che perciò può venire contagiato dall'abbrutimento [ ] il senso di questi media risiede nel disintossicarsi dalla propria possibile bestialità».26 La valorizzazione di una filosofia en plein air come quella cui si riferiva Günther Anders è apprezzabile, ma allo Sloterdijk (a cui peraltro manca la biografia «in mezzo alla folla» dinamica e ispirata di Anders) manca tutta la cura cui Anders tratta del passaggio da homo faber a homo materia27 per concentrarsi esclusivamente sulle noie e gli scrupoli di un ideale homo faber, salvo sporadici cenni a pericoli che invece meritano il beneficio di riflessioni di più ampio respiro: il cupio dissolvi, altrimenti, risulta essere un fragile esercizio di immobilità speculativa Questo non gli permette, di fatto, di poter ragionare a fondo su cosa sia l'abbrutimento, e soprattutto su cosa questo sia diventato, il che lo pone in una posizione intermedia fra umanismo e post-umanismo che può condizionare ben poco nella nostra presente considerazione sulla condizione dell'uomo o su ciò che dovrebbe essere la sua condizione futura: dopotutto, l'abbrutimento, proprio perché pericolo incessante, è una forma suscettibile di presentarsi sotto diverse forme nella storia, e non è, come Sloterdijk vorrebbe presentarci, una baratro sempre identico per ogni uomo male allevato In questo il nostro pensatore dimostra di non avere una psicologia molto diversa dal discorso fra lo straniero e il giovane Socrate cui si richiama alla fine di Regole per il parco umano Il secondo esempio di incoerenza di Sloterdijk risiede nella mancata costruzione di un pensiero eticamente direzionato a supplire pericoli della nostra epoca: si ricordi esemplarmente il richiamo ad un pericolo di una società inesistente senza «avvedutezza» Il pensatore tedesco mette in tavola, sapientemente, tutte le carte su cui può giocarsi la validità di un intervento atto a modificare il modello di «allevamento» dell'uomo futuro, salvo poi, perị, ritirare la mano quando profonda coscienza umanista, sottolinea la necessità di una forma cautelare nei confronti della cooperazione fra le nature, senza tuttavia fare alcun cenno su quale sia una minima occasione di supporto a questa cautela, quale sia l'indirizzo che questa cautela debba prendere: il saggio di cui ci si sta occupando è intitolato Regole per il parco umano, ma di regole o indirizzi etici non si parla mai I detrattori moralmente condizionati si sono concentrati fin troppo su questo titolo, ma a ben guardare i contenuti del saggio, il grande difetto di Sloterdijk sta proprio nel non essersi pronunciato fino in fondo in materia, lasciando così alla superficie i gradimenti come piuttosto le malevolenze dei lettori più voce in capitolo Leggere Sloterdijk accompagnato da Jonas, Apel, Gadamer, Anders, Mumford, Ratzinger, Severino, a questo punto, è il proposito migliore per lo studioso della nostra epoca e dei risvolti tirati in ballo in questa sede; se non altro il contributo di questo particolare filosofo può estendersi ad una forma di «allievo del sospetto» (per clonare il modo in cui Ricoeur si riferisce a Marx, Nietzsche e Freud) da confrontare i «maestri dello sguardo», per così dire, che si è appena elencati In ultima analisi l'idea conclusiva cui si può considerare il pur coraggioso lavoro di Sloterdijk nel rimettere in ballo concetti heideggeriani e nietzscheani è che il nuovo regime post-epistolare e post-umanistico che il pensatore tedesco dichiara essere la tratta della trasmissione del sapere attuale, non è né cominciato né continuato il suo contributo, ancora (comprensibilmente!) legato ad una forma di trasmissione letteraria, ad una logica spettatoriale nei confronti dei cambiamenti della storia e a inquietudini sane e non fraintendibili sui pericoli cui la nostra natura umana è rivolta, che siano per mano nostra o per mano di un destino enigmatico verso il quale l'umanismo e le sue mille, continue forme ancora hanno molto da indagare Note P Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati Saggi dopo Heidegger (trad it Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani F.W Nietzsche, Così parlị Zarathustra, in Opere, Adelphi, Milano, 1964 sgg., vol.VI, t.I, pp 203206 P Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati Saggi dopo Heidegger (trad it Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p 256 Critica inaugurata da accuse formulate da Reinhard Mohr né Der Philosoph Peter Sloterdijk propagiert «pränatale Selektion» und «optionale Geburt»: Gentechnik als angewandte Gesellschaftskritik Seine jüngste Rede über «Menschenzucht» trägt Züge faschistischer Rhetorik, «Der Spiegel», giugno 1999, in cui si ritiene la tematizzazione di Sloterdijk al livello di una «visione di orrore fascista» Disputa notoriamente proseguita fra Sloterdijk e Habermas sul piano mediatico a furia di frecciate sulla reciproca antipatia professionale e non Si noti esemplarmente l'implicito riferimento a Sloterdijk in J.Habermas, Il futuro della natura umana, Torino, Einaudi 2002, pp 24-25: ««un pugno di intellettuali psichicamente crollati [che] cerca di leggere il futuro nei fondi di caffè di un «post-umanesimo» naturalisticamente declinato [ ] Le fantasie nietzschiane di questi auto-promotori per il momento servono soltanto a soddisfare spettacoli mass-mediatici» L'idea che a dieci anni di distanza ci possiamo fare su questa disputa è che proprio il processo mass-mediatico di questo affaire Sloterdijk abbia imploso, come accade per ogni disputa mediatica, la sua importanza limitatamente al periodo in cui è nata D'altro canto, porre la questione su un piano storiografico di critica filosofica a riguardo, ora, significherebbe creare senza alcuna legittimità una differenziazione fra i due pensatori su una base arbitraria, o nel migliore dei casi, parziale In questa sede si ritiene perciò valido considerare il contributo del pensiero di Sloterdijk isolatamente da ogni nemesi forzata altri pensieri e da circoscriversi alla posizione che incarna sullo sfondo del discorso sull'umanismo di Heidegger, nella consapevolezza, peraltro, che un serio confronto Habermas meriti approfondimenti che questo studio non può né vuole soddisfare P Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati Saggi dopo Heidegger (trad it Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p 260 «Chi abbastanza fiato per rappresentarsi un'epoca in cui Nietzsche sarà storicizzato così come lo era Platone per Nietzsche?», Ibidem Ivi, p 257 Questo punto potrebbe, insieme ad altri, scagionare da accuse estremiste di «fascismo» nei confronti del nostro autore, il quale va piuttosto giudicato per debolezze filosofiche all'interno del suo discorso, anziché per i risvolti dottrinali che potrebbe avere e che, onestamente, non pare proprio avere nemmeno come presupposti e tantomeno come interessi In questo senso, il «pensiero pericoloso» non lo è per quanto possa portare a fare, ma per quanto esso stesso disfaccia all'interno di metodologie tradizionali nella considerazione della storia da parte dei filosofi Anche la filosofia i suoi panni sporchi da lavare in famiglia Potremmo osare dicendo che questa sia abbastanza una costante nel pensiero del post-moderno, della post-histoire, le quali, coerenti il loro percorso di «pensieri deboli», non vanno di molto oltre al pensiero stesso Platone, Politico, trad di A Zadro, in Opere complete, Laterza, Bari 1982 Le parti a cui Sloterdijk fa maggiore riferimento sono situate nel vol.II, 265b-c, pp 267-268 10 P Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati Saggi dopo Heidegger (trad it Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p 261 11 Ibidem 12 Ivi, p 262 13 Ibidem 14 Ivi, p 265 15 Ibidem 16 Titolo originale Nicht gerettet Versuche nach Heidegger, Suhrkamp, Franfurt am Main, 2001, tradotto e pubblicato in italiano nella edizione finora citata di Bompiani del 2004 17 P Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati Saggi dopo Heidegger (trad it Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p 303 18 Ibidem Per una precisa collocazione di queste tematiche post-metafisiche sulla fine della storia si veda l'eccellente studio A Rizzacasa, L'eclisse del tempo Il fine e «la fine» della storia, Città Nuova, Roma 2001 19 L'idea che ci si fa a riguardo è che il termine «mostruoso» crei più difficoltà di quante ne possa scansare La traduzione «smisurato» o «enorme», invece, ci suggerisce uno spazio di interpretazione ben più aperto, dove quest'enormità e smisuratezza giustifica ancora il beneficio del dubbio se la produzione umana o il suo destino al di della volontà siano di fatto prospettive imprigionabili dalla nostra attuale comprensione, e se quindi ciò non lasci qualche spiraglio alla nostra prudenza, che un sano scetticismo può essere l'unico baluardo per non abbracciare troppo frettolosamente dottrine sul post-umano come piuttosto dottrine di fede tradizionali per absurdum 20 P Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati Saggi dopo Heidegger (trad it Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p 237 21 Cfr E Severino, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982 22 Cfr F.W Nietzsche, Così parlị Zarathustra Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1976, pp 94-96.«Dio è una supposizione; ma io voglio che il vostro supporre non si spinga oltre i confini della vostra volontà creatrice [ ] Dio è un pensiero che rende storte tutte le cose dritte e fa girare tutto quanto è fermo» Rimane da osservare come certi collegamenti vadano fatti grande cautela, un secolo dopo sufficienti strumentalizzazioni del pensiero di Nietzsche da tiranni, eugenetisti o detrattori Nietzsche deve rimanere, nella nostra considerazione, la più alta forma di lettura del crocevia della nostra storia, e non come una scrittura di questa Un mondo che congeda i suoi dèi sbalorditiva unitarietà non può essere responsabilità di uno scritto o di un (seppur grandissimo) pensatore Vorrebbe dire che l'umanismo come sistema di diffusione del sapere e «allevamento» funziona definitivamente; e ciị paradossalmente stride, a proposito, l'idea proprio di Sloterdijk per cui l'umanismo come scambio epistolare del sapere sia finito da tempo e Sloterdijk fa un uso ampio del termine «epistola» per intenderlo come l'attività di comunicazione di chi è sapiente, cfr P Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati Saggi dopo Heidegger (trad it Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p 243 «L'era dell'umanismo nazional-borghese è giunta a compimento perché l'arte di scrivere lettere [ ] non sarebbe più sufficiente a tenere insieme il filo tele comunicativo tra gli abitanti di una moderna società di massa [ ] questi fondamenti sono decisamente post-letterari, post-epistolari e di conseguenza post-umanistici».Tuttavia Sloterdijk non ammette mai di essere anch'egli in pieno in questa insufficienza 23 P Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati Saggi dopo Heidegger (trad it Anna Calligaris e Stefano Crosara), Milano 2004, Bompiani, p 238 24 Ibidem [corsivo mio] 25 Ivi, p 244 26 Ivi, p 245 27 G.Anders, L'uomo è antiquato Sulla distruzione della vita nell'epoca della terza rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 1992 Si veda ad esempio p 15 ... biografico, l'altro filosofico che hanno determinato tale visione della natura in Camus: da una parte, l'infanzia algerina, dall'altra, la sua rivendicata «grecità» Della prima Camus parlato... non si apre alla relazione Dio, sono infinitamente meno della misericordia, e dell'amore, di Dio partecipato all'uomo Posto che la grazia non annulla la natura, ma la suppone e la perfeziona (cfr... nell'euforia di una vera e propria cabbala estatica, infinite catene di analogie, metafore e similitudini, fino ad arrivare a Novalis che si immagina 'racconti senza alcuna coerenza, ma pieni di associazioni,

Ngày đăng: 18/10/2022, 18:15

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